Giuliano Kremmerz, al secolo Ciro Formisano, esoterista e teurgo napoletano, trascrive nel suo La scienza dei Magi (Vol. II, Edizioni Mediterranee, Roma 1975, pp. 196-199) una storiella «ermetica» abbastanza incomprensibile. Parla di un certo Mamo Rosar Amru, sedicente sacerdote isiaco, che dalle lande nilotiche esporta i misteri isiaci in terra di Partenope. In questa sorta di sgombero misterico è coadiuvato da una baldracca «agubica», una ierodula «assira» di nome Myria. È il culto di Iside reinventato in epoca ellenistica, mutato secondo le aspettative di immortalità dei più.
La storiella inneggia un certo dualismo corporeo. Cittadino dell’universo, Mamo confessa il proprio orrore per il coito. Di riflesso e in antitesi, Myria celebra l’accogliente nudità dei suoi umidi recessi: è la metafora dell’anima, essenza divina, vincolata ai lacci del desiderio, schiava di passioni lascive e inconfessabili. Un caleidoscopio di pulsioni belluine che il Kremmerz, con magica prosopopèa, definisce «amore». Il sacerdote Mamo non conosce – in senso gnostico ovviamente – cosa sia questo «amore» elargito dalla dea Iside e depositato nell’involucro vicario e vaginale di Myria. Ne sarà fatto partecipe al termine del racconto, quando la rabbia della dea, infuriata forse per avere lui disdegnato la sua ierodula, si scatenerà su Pompei, seppelendo la città sotto un candido manto di cenere. Alla vista di tale rovina, Mamo, forse colto da compassione, esperirà per la prima volta il senso kremmerziano dell’«amore».