De Hoc Satis

Un chiarimento su Evola esoterico

 

di Claudio Arrigoni

 

 

In risposta al paragrafo dell’articolo di Piero Fenili su “Politica Romana” n° 8, “Il numero otto gli piacerà di più” e dal titolo “Arrigoni ritorna alle origini”, intendo chiarire che oltre alla vicenda politica di J.Evola, attentamente criticata da P.F. e dai collaboratori della rivista, penso che l’opera di filosofia, visione del mondo, interpretazione dei principi sacrali delle civiltà antiche, ancorché i volumi da lui dedicati direttamente o indirettamente alla sapienza magica, costituiscano non solo una fluidica corrente di magnetico entusiasmo per chi ha incontrato i suoi scritti, bensì una linea di pensiero verticale, ideale, con verità iscritte dall’alto in una concezione spirituale relativamente leggibile con il metodo storicista. L’omaggio ermetico non è stato da me inteso quale giovanile mero pathos di antagonismo politico-culturale Anni ’70, ma quale vero e proprio riconoscimento di maestro di pensiero nella via della tradizione esoterica magica pagana, e ancor più di R.Guenon il mio slancio deriva dal debito di gratitudine per aver fissato nei fondamenti della ricerca di una posizione culturale della tradizione arcana, valori e riferimenti ai quali si sono ispirati amici ed ermetisti della comunità magica italiana, almeno in una fase importante del loro cammino. Non intendevo nel mio scritto solo sopravvalutare suggestioni, sfere emozionali o sortilegi espressivi dell’autore, ma, ripeto, considerare il contributo di filosofia spirituale e valori iniziatici come un moto di fermento magico mentale fecondo e fecondante per dare ai suoi interlocutori ideali una valida teoria per gli occulti argomenti della Luce che nelle notti di epoche di pseudo-cultura e sovversione controiniziatica hanno cercato ben oltre al seguito del faro e della stella di J.Evola (alla cui “firma” di EA in “UR” e “KRUR” si riferiva la mia frase ove Roma, Ea e runico stanno a significare un tipo di sintesi non necessariamente pangermanica, così come è noto che i triumviri Cesare, Crasso e Pompeo, riunitisi nella città di Lucca, vi interrogarono l’aruspice etrusco Ar-Runs, nel cui nome è presente il suffisso run-s, ricordante certamente la magia runica in tutt’altro ambito che quello nordico-barbarico e antiromano).

La lezione di Platone, con la diversificazione tra Mytos e Logos, non sembra però corrispondere a quanto da me scritto. Il valore aureo dell’opera di Evola e della sua interpretazione del mondo in senso sacrale e anticristiano è forse corrispondente ad un felice linguaggio ermeneutica che può avvicinare i Cavalieri del Drago al mito degli Dediche è espressione vivente del loro dominio iperuraneo; mentre il Logos inteso come valutazione critico-esegetica e perfezione linguistica della sua opera, non intacca l’essenza del valore di contributo non-politico, ma di pensiero non, per così dire, relativistico, della sua Fiammea Idea rubinica. Non si leggano tali mie affermazioni come tentativi di censurare ogni ricerca anche “sgradevole” della verità. Apporti preziosi alla conoscenza di Evola e anche dei limiti dei suoi scritti. Solo non è per me giusto né mitizzare il personaggio né depauperare, nel vaglio delle più sottili notomizzazioni, il valore del suo numero pitagoricamente inteso, nel risveglio in Italia dell’Aureum Arcanum Imperii.

La magia runica poi, quella oracolare e druidica, così sacerdotale, penso non abbia subito alcun disastro se non il riemergere dell’antico nemico mai vinto, e cioè il fronte galileo incarnato nel potere malefico del suo centro visibile, il Vaticano. Al quale, sicuramente, Giulio Cesare Evola non fu né legato né collegato. Anzi, è noto che la sua stessa partecipazione da ufficiale alla Grande Guerra dei Dioscuri lo conferma nella militanza naturale alla difesa dell’Imperium, voluta dai Maestri Pontefici del Nilo e del Tevere sacri. Ma ora veniamo alla accusa di una contaminazione ripetuta, nella saggistica evoliana, a proposito del suo scrivere a favore del cattolicesimo e del “sacro romano impero”. Che l’autore riconosca all’imperio medioevale una continuità di trasmissione che va nella direzione di una impronta nordico-magica, come fra il mito del Graal e di una magia di Virgilio che estese attivamente il mito di Merlino nell’Europa ormai cristianizzata, è vero. Ma non penso che, come per altro nel magico Ordine dei Templari, abbia inteso rifarsi ad una rielaborazione del Cristo nordico di carattere gotico, bensì riconosca che nel medioevo europeo e nell’impero operarono anche correnti sapienziali non cristiane e precristiane, sotto simboli celtico-cavallereschi di arcani castelli con centro nelle dimore filosofali dell’Argot. A proposito qui di elementi cattolici negli scritti del filosofo, ve ne sono alcuni, considerazioni vieppiù dettate dai suoi interessi per i pensatori controrivoluzionari e la loro impostazione politico-sociale nell’opporsi alla decadenza, manifestazioni dell’ideale tradizionale nelle correnti della storia moderna. In generale cioè queste riflessioni di una ipotetica chiesa cattolica conservatrice antisovversiva, sembrano attirare l’attenzione di Evola sul problema di come far fronte nel presente della sua epoca al dilagare del caos rivoluzionario catagogico e politico. Sembra cioè voler prendere ad esempio un certo ethos anti-anarchico di lotta e di vittoria per forgiare un baluardo di pensiero attivo e inespugnabile al disfacimento da parte del mondo moderno nella fase dell’età oscura del kali-yuga. Ma le due opere, “Orientamenti” (1950) e “Gli uomini e le rovine” (1953), almeno per quanto attiene al discorso cattolico, vanno sicuramente contestualizzate. Ovviamente, ci si potevano risparmiare le righe di sopravvalutazione dell’idea crociata (nel paragrafo 11 di “Orientamenti”), ma ripeto, per l’Evola si trattava di consegnare in via simbolica di tenuta dell’io ai giovani della destra italiana di quegli anni, un carattere spirituale soprasensibile che nemmeno un ordine religioso di “rexisti” medioevali avrebbe ancora potuto infondere loro dal didentro. Quindi, le sue osservazioni hanno il senso di una ricerca, da lui tuttavia preclusa al magistero della Chiesa , di una virtù sacrale di riferimento e sottile vessillo per una tenuta degli uomini da differenziarsi all’irruzione crescente delle genìe infere incarnate nel dominio dell’esistenza: pensiero anti-pedagogico da vivere nell’azione, interna ed esterna, almeno come apolitia della testimonianza.

Tutta la concezione poi della metapolitica imperiale cara al filosofo, è collegata all’idea di un ghibellinismo misterico celtico e graalico, ben diverso dalle contraffazioni che vedono incarnati nei Pignora Imperii dell’Europa medioevale e cristiana, simboli, ordini cavallereschi e stili di vita monastico-guerrieri, tutti riducenti al massimo l’apporto iniziatico del paganesimo sacro ad una “preparazione” prima e ad una glorificazione poi della teologia mosaico-essena del Cristo Re e di un’ermeneutica simbolica afferente l’ignoranza Galilea dei Veri dell’Ars Magna e della Grande Opera. Andando ancora oltre queste osservazioni, riteniamo che quanto incorporato e snaturato dei riti aviti  dell’Antica Religione, fu il tentativo deviante di accreditare un insegnamento sapienziale al potere militare della Chiesa. Senza che nemmeno il tentativo di cristianizzare la materia magica precedente abbia mai prodotto un esoterismo cristiano, il Centro Arcano essendo e permanendo  sempre occulto al di fuori e al di sopra dell’oscurantismo religioso.

Fra cristianesimo, monoteismo, teologia cristica e la magia segreta dei discepoli dell’Arte Regia, non vi fu, non vi è e non vi sarà continuità. Evola, a differenza di Mordini e di Cardini, non discende dagli eretici del giudaismo e dagli apostati del paganesimo. Sì, è vero, Evola si espresse a favore del culto della spada e così pure della via eroica, e cita anzi a tal proposito l’idea della jihad islamica, probabilmente mutuando l’espressione dall’influenza del Guenon sulla sua visione organica del mondo. Essendo ogni riferimento alla tradizione araba più caro e più vicino al grande pensatore delle Gallie. Invece il nume del mistero del Graal e del sacro calice è sicuramente vicino al dio Dioniso, spesso raffigurato nell’atto di bere o versare la sacra bevanda dalla coppa e calice; mentre l’arconte del sacro romano impero è il Cristo re discendente da Melchisedek e crocifisso sul Golgota, i cui discendenti regali cristiano-barbarici massacrarono nell’Europa anti-morganiana le auree streghe figlie di Diana e custodi dell’oro del Graal.

Si tende poi a sostenere che, in ragione dell’equazione personale filo-nordica di Evola, egli si sia schierato di fatto contro gli Dei di Roma, che subirono nell’Urbe ad opera dei barbari e dei cristiani una massiccia offensiva all’estinzione della sacra maestà del loro invitto fuoco. Ma a parte che ciò dicendo si confonde il mezzo con il fine, cioè il coefficiente di espressione individuale dell’autore, con il fine principale del suo pensiero filo-occidentale, di formazione culturale indoeuropeista ed indo-ariano, ma tutt’altro che avverso alla gloria di Roma, Evola erige un contributo alla comprensione e valorizzazione del mondo antico greco-romano partendo da quel filone di pensiero di comparazione linguistico-religiosa che attraversò, dal XIX secolo, le università europee nella interpretazione indoeuropeista della civiltà di Roma. Pensiero che dette impulso, con il validissimo N.D.Fustel de Coulanges, ma anche il Mommsen e soprattutto Dumezil, all’idea di Roma ed alla importanza del suo mito anche sacrale nel mondo . Erede di tale dibattito ma con una superiore ed esoterica chiave interpretativa, fu lo stesso Evola, che inoltre, per il fatto di mettere in relazione lo spirito guerriero germanico con quello della virus eroica dei patres romani, anche con gli errori e le differenza sfuggite all’autore, confermi il pregiudizio di un Evola pangermanista, anti-romano e suddito dello stivale austro-tedesco non appare legittimo.

A sostegno di questa osservazione, tutti sanno dell’interesse e della profonda ricerca di studio che attirò fin negli ultimi anni della sua vita, l’Evola, per lo stoicismo e l’epicureismo anche nella tarda latinità imperiale e della considerazione che lo avrebbe sempre avvicinato all’idea regale dello stesso Giuliano Augusto ripresa nel senso di una apolitia attiva mai dimentica di quelle preziose annotazioni della parte più matura della sua opera, sulla concezione della regalità magica in Roma, Egitto, Persia, Ellade, Cima, Giappone, della fedeltà ghibellina al mito arturiano dell’impero e della stessa sapienza alchimica dell’ermetismo eroico dell’Arte Regia.

Di fronte ad un orizzonte così felicemente ampio della sua filosofia della storia ed elezione dei principi non umani che la attraversano, le mende della sua produzione per così dire più “giornalistica” e di opinionismo selettivo, non possono scalfire l’organicità, la validità del piano delle idee ed anche il contributo di impostazione magica e non anacronistica al risveglio di verità poco affidabili alla neo-scolastica anti-evoliana.

Una considerazione finale ci riporta ad un più netto chiarimento circa la denuncia di un Evola volto al ricupero di una esponenzialità cattolica almeno in alcuni scritti del dopoguerra e affidati ad una controffensiva politico-tradizionale di una visione del mondo differenziata, intendo riferirmi a ciò che P.Baillet nel suo libro “Julius Evola e l’affermazione assoluta” (Ed. Ar,1978, p.83), definisce “gli strani funerali di Evola”. Ora, quanto conosco in merito, l’ho appreso dalla rivista “Arthos”, che all’epoca ne informò attraverso il suo direttore. E quindi non ho personalmente elementi precisi o più estesi del, per così dire, “segreto” di quanto avvenne dopo le esequie del filosofo, delle quali ebbi modo di parlare con lo stesso Placido Procesi. Renato Del Ponte però, pur mantenendo assoluta riservatezza sulle istruzioni spirituali ricevute dallo stesso Evola, circa il mandato del destino sacro delle sue ceneri, ci ha assicurato che si trattò di una cerimonia e di un rito senza alcun riferimento diretto o indiretto ad elementi cristiani, profani ed esoterici.

Penso che tale testamento vivente di J.Evola, abbia chiuso con il sigillo ed il carattere del suo arcano fato, libero e liberato da infestazioni galilee, il suo essere allo spergiuro della viltà.

(Tratto da "ELIXIR" n. 9 con il permesso delle Edizioni REBIS) 

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