Come appassionato ricercatore di alcuni testi sapienziali del mondo antico, soprattutto in ambito artistico, ho incontrato, inevitabilmente, una verità che ha orientato la mia vita in una direzione nuova o forse ri-trovata: originariamente la conoscenza non era relegata a condizioni sempre fortemente settoriali e disumanizzanti come nell’epoca finale che viviamo oggi, ma abbracciava scienze e conoscenze le più varie, destinate ad allargare l’ampiezza spirituale dell’essere
umano e quindi i suoi più intimi poteri; poteri estrinsecabili con un mezzo potentissimo di cui la Natura, che principia dalla caratteristica di forma ponte tra l’umano ed il divino, ci ha dotato: l’arte. Secondo questa chiave di lettura della storia, l’arte risulta essere il mezzo principe che permette ad un significato di essere tramandato. E per arte intendo tutte quelle operazioni che fanno transitare lo spirito nella forma, compresa la letteratura e la poesia che nutrono la storia dell’ingegno umano ancora intriso di quella trascendenza che, ad oggi, molti si adoperano per cancellare relegando la territorialità temporale dell’essere umano al condominio, al giardinetto, al pianerottolo, all’iniezione, alla app. Il mio viaggio temporale desidera accompagnarti, oggi, in un’epoca da molti ancora definita buia e superstiziosa, forse perché infastidisce il mondo contemporaneo trattandosi di un’epoca nella quale gli umani vivevano un profondo connubio mistico tra gli elementi, la conoscenza, il rapporto con il divino e la collettività: il Medioevo.
Lasciando ad altra letteratura l’approfondimento dell’arte e della storia medioevale, periodo di cui sono da sempre appassionato, spero oggi di condurti nell’esplorazione di un tema di fondamentale importanza per la mistica del periodo in esame: la trattatistica alchemica medioevale per la preparazione dei colori e delle tecniche artistiche. Nell’esposizione e nella trascrizione delle conoscenze del mondo antico diventò di importanza primaria il ruolo dei monasteri che, come nelle tradizioni sapienziali di tutti i popoli di conoscenza della terra, conservavano e tramandavano quelle esperienze di cui oggi non avremmo notizia. Se, infatti, non ci fossero stati nel Medioevo i monaci che trascrivevano dal greco i testi degli autori del Mediterraneo, oggi, per esempio, non conosceremmo il pensiero dei filosofi greci.
All’epoca non erano infrequenti ricettari che, insieme con le conoscenze relative alla preparazione dei colori e delle malte, contenevano nozioni sulle funzioni terapeutiche delle erbe e sulla cura delle malattie, oltre alla lavorazione dei metalli, la cottura dei minerali e l’estrazione di succhi al fine di ottenere pigmenti ed inchiostri per la miniatura. Va contestualizzata, inoltre, l’estrema poliedricità dell’arte medioevale che, a seconda della funzione dell’opera d’arte e della tecnica adatta, andava a suggerire non solo la tecnica stessa per le sue motivazioni strutturali ma anche la preparazione che il materiale doveva avere perché il significato dell’opera fosse completo, come per la preparazione del cinabro (HgS=solfuro di mercurio) e degli azzurri mantelli della Madonna di derivazione egizia. È un’epoca, inoltre, nella quale perdura, anche nella costruzione del Tempio e della casa (= domus, Duomo), la concezione sapienziale del costruttore. Questi, membro di una corporazione o gilda, si muove in Europa vestendo gli indumenti adatti sia al cantiere sia al viaggio e porta con sé la bisaccia degli istromenti de’ l’Opera (1) legati al mestiere, considerati come il saio o la tonaca tanto è ritenuto sacro il suo lavoro.
Traendo ispirazione dai trattati del mondo mediterraneo antico, il Medioevo è ricco di elaborati che sia dal punto di vista letterario, sia dal punto di vista artistico creano il tappeto culturale e spirituale adatti alla filosofia della fabbricazione dei colori. Sarebbe estremamente impegnativo compiere una disamina completa di tutti i trattati di tecniche artistiche medioevali, ma possiamo citare gli esempi forse più celebri quali il Mappae Clavicula, il De Arte Illuminandi, il Liber de Coloribus di Pietro di St. Audémaro (o Saint Omer) ed il Libro dell’Arte di Cennino Cennini(2). Il più interessante per questa esposizione, secondo chi scrive, è il Mappae Clavicula. Si tratta di una raccolta in latino medioevale di numerosi procedimenti tecnici principalmente nel campo artistico ma anche riguardanti diverse altre discipline quali la lavorazione dei metalli o l’avvelenamento delle frecce. Il testo, già in uso in ambiente carolingio ed ottoniano, assume in sé, inoltre, numerosi frammenti di conoscenze del mondo antico, in particolare alessandrino. La copia più antica a noi nota risale all’inizio del IX secolo, ed è uno dei più completi ricettari medioevali che ci siano pervenuti. É anche grazie al lavoro fondamentale del Professor Sandro Baroni che oggi possiamo fruire di una chiave di lettura approfondita del testo unitamente ai procedimenti riportati (3).
Mappae Clavicula è traducibile in piccola chiave della mappa e, per la sua natura, letta da molti studiosi come enigmatica, ha dato origine a varie ipotesi rispetto al suo significato originario. Una delle ipotesi è che se la chiave sottintende allo svelarsi di una conoscenza tecnica, la mappa potrebbe essere una striscia di garza sottile imbevuta di colore usata per conservare i colori, quasi fosse un tubetto ante-litteram; un’ulteriore ipotesi conduce la mappa al frutto di una svista della traduzione dal greco: keiromakton (= mappa) letto al posto di keirokmeton (= elaborazione manuale) (4). A mio avviso la chiave di cui si parla è da ricercarsi nella conoscenza dell’alchimia, che consente la raffigurazione dei procedimenti della Natura e quindi ne permette la comprensione dei meccanismi più profondi di trasformazione. Nel testo, infatti, sono comprese circa 300 ricette di cui molte sono effettivamente riconducibili alla preparazione dei colori, altre invece inapplicabili a questo fine se consideriamo solo una pedissequa applicazione di regole scientifiche causa-effetto, viceversa comprensibili nell’ottica di commistione tra alchimia e magia naturale che all’epoca, come dianzi detto, facevano parte di un sapere unico e correlato. Con una punta di orgoglio personale, ritengo importante anche la ponderosa collazione delle “ricette per fare l’oro” tradotte in parte da chi scrive insieme con la D.ssa M. Chiara Angellotti nel 1992 dai testi ottocenteschi degli studiosi di tecniche antiche John Greenfield Hawthorne e Cyril Stanley Smith che, a loro volta, tradussero il Mappae in inglese dal testo originale in latino medioevale, già tradotto dal greco (5).
Le tecniche della stesura dell’oro di cui si parla nel testo vanno dalle classiche dorature a foglia e a pastiglia, che creavano quei meravigliosi, metafisici fondi astraenti delle tavole medioevali fino alle enigmatiche “ricette per fare l’oro” che scoprimmo molti anni dopo essere di fatto percorsi alchemici per ottenere l’oro interiore, quindi la brillanza ermetica che, nel corso della vita, rende l’esistenza stessa l’unica opera d’arte alla quale dedicarsi e di cui le opere materiali sono specchio. Come notato dianzi, per alcune delle ricette quali il fare l’oro ed il fare l’oro migliore l’anonimo autore utilizza termini fantastici e misteriosi soprattutto per ottenere risultati concreti in campo artistico. Le once di mercurio, la limatura d’oro, le scaglie d’allume e le efflorescenze di rame chiamate calcantum (= vetriolo blu) mescolati con orpimento (= auripgmentum, trisolfuro d’arsenico) (6) sarebbero elementi costitutivi di fantasia per l’ottenimento concreto, in un laboratorio medioevale, dei colori.
E, rischiando di indispettire altresì il chimico contemporaneo, potremmo quindi affermare che l’alchimia, molto più antica della chimica, permea quasi ogni passo del testo così come per la fabbricazione del cinabro (Solfuro di Mercurio) che veniva a volte confuso nel Medioevo con il cosiddetto minio di epoca romana (7) e sottende l’ottenimento di un rosso vivo e pulsante tramite la cottura del mercurio nell’athanor attraverso un triplice stadio di cottura. Passando dal primo colore che si ricavava che era di colore bianco, si otteneva successivamente un secondo passaggio di colore giallo, giungendo infine al terzo stadio di cottura, appunto il solfuro, che era di colore rosso; ma se il procedimento non fosse stato eseguito ad arte si sarebbe ottenuto un colore bruno, inutilizzabile in qualsiasi tecnica artistica. Curiosamente, inoltre, il cinabro veniva usato in antichità proprio per separare l’oro dalle impurità dei minerali nei quali è contenuto (8). Come non individuare in questa preparazione cromatica un’allegoria alchemica di trasformazione del sé per giungere allo scarlatto, quel colore che in diverse epoche è considerato la trasposizione dell’oro solare, come nel disco solare di Horus, e quindi della parte più profonda dell’umano?
A mio avviso, altresì, risulta affascinante lo studio dell’uso del cinabro impiegato sovente per la pittura del manto di Cristo durante la passione che, allegoricamente, ricorda il sacrificio in termini alchemici che l’Iniziato compie per la trasformazione di sé. Durante il primo interrogatorio, almeno secondo il Vangelo di Giovanni, Cristo ha un manto (o una Veste) di colore bianco, successivamente, dopo essere dileggiato da Pilato, ne indossa uno rosso, proprio come gli stadi di cottura del cinabro. Ecco che la merceologia dei colori nell’uso medioevale non si ferma quindi alla sola rappresentazione dell’immagine cultuale, seppure di finalità sacrale per la popolazione, ma assolve alla funzione apotropaica come il cacciatore dipinto dall’artista paleolitico diviene azione di propiziazione pura assurgendo a ruolo di pontefice tra la divinità e l’essere umano in ragione dell’azione magica veicolata dall’arte. L’arte infatti illumina i dipinti in affresco, su tavola, le statue policrome e le miniature come ci si può affascinare nella lettura di un altro testo fondamentale della letteratura artistica medioevale: Il De Arte Illuminandi. Li illumina dal punto di vista trascendente poiché le parole divengono messaggio spirituale e, contemporaneamente, dal punto di vista immanente perché legati alla tecnica artistica. È noto infatti che il termine illuminare i testi miniati, cioè crearne meravigliose estensioni pittoriche e grafiche, derivi anche dall’uso dell’allume mescolato con i colori stessi per renderli laccati (9).
Lo storico e filosofo dell’arte Ananda Kentish Coomaraswamy traccia, a questo proposito, un interessante parallelismo tra l’ascesi dell’arte indiana e la saggezza della mistica medioevale trasmessaci dal Maestro Eckhart (10) ed approfondisce così il concetto dell’arte medioevale europea che soddisfa la profonda necessità dell’essere umano di contattare ed essere permeato dalla sfera sacrale che compenetra tutte le creature e di cui l’arte si fa veicolo. E così i colori sgargianti delle miniature, il cui nome deriva dal citato colore minio, tracciano un solido sentiero stilistico e pregno di significati alchemici che perdureranno per grandissima produzione pittorica per tutto il periodo del cosiddetto gotico internazionale, di orientamento cortese e cavalleresco e per buona parte del primo lasso di tempo del magico Rinascimento che chiamiamo infatti Umanesimo, in virtù della volontà filosofica, e quindi artistica ed architettonica di collocare l’essere umano al centro dell’universo e quindi al centro delle proprie scelte. La ricchezza culturale e dall’atteggiamento devozionale dei trattati artistici medioevali non si conclude con l’epoca antica esaminata ma è ancora viva fonte di ispirazione, tanto che molti artisti del Novecento italiano ne hanno attinto ampiamente conoscenze tecniche ed orientamento artistico. Per citarne alcuni, gli studi e le opere di Gino Severini, Achille Funi, Corrado Cagli, Massimo Campigli, Mario Sironi e Giorgio De Chirico denunciano una profonda passione per lo studio delle tecniche artistiche a loro contemporanee che trova le sue radici proprio nel Medioevo (11), (12).
Alchimia dunque che permea tutte le tecniche dell’umano sapere perché umanissimo potere è quello di plasmare la materia a seconda dello spirito che si vuole eternare, come nella simbologia volutamente nascosta anche in temporalmente posteriori, nell’epoca davvero buia della Controriforma che, purtuttavia, diede i natali a numerose opere d’arte rinascimentale che potremo insieme approfondire successivamente….
NOTE E BIBLIOGRAFIA:
(1) R. Dionigi: I segni dei lapicidi Vigevano 1996;
(2) C. Cennini: Il libro dell’arte o trattato della pittura. Milano 1975. il De Arte Illuminandi, Vicenza 1975;
(3) S. Baroni, G. Pizzigoni, P. Travaglio: Mappae clavicula: All’origine dell’alchimia in Occidente, Saonara (PD) 2014;
(4) Bianca Silvia Tosatti, Trattati medievali di tecniche artistiche, Milano 2007;
(5) C. M. Angellotti, G. A. Bassoli: traduzioni di ricette dal Mappae clavicula dagli scritti di C. S. Smith e J. G. Hawthorne, Como 1992;
(6) Dario Menasce: Diavolo di una particella, Milano 2013;
(7) C. S. Smith and J. G. Hawthorne Mappae clavicula, A little key to the world of medieval techniques American Philosophical Society, Philadelphia 1974;
(8) M. Matteini, A. Moles: La chimica nel restauro, Firenze 1989;
(9) S. Baroni, B. Segre: Storia documentaria delle tecniche pittoriche antiche, Como 1990;
(10) A. K. Coomaraswamy: La trasfigurazione della natura nell’arte, Milano 1976;
(11) G. De Chirico: Il piccolo trattato di tecnica pittorica, Firenze 2014;
(12) G. Severini: La vita di un pittore, Milano 2008.
Prof. Giovanni A. Bassoli
Docente/Restauratore di beni culturali, superfici decorate dell’architettura, dipinti mobili.
(con la fraterna collaborazione del sito www.paginefilosofali.it)