Giuseppe Antonio Pernety (nato a Roannes nel 1716, morto a Valenza nel Delfinato nel 1801), benedettino della Congregazione di S. Maura e Cappellano alla corte di Federico il Grande, è stato uno dei più documentati e più chiari commentatori della filosofia ermetica. Egli scrisse «Les fables egyptiennes et grecques devoilées» (Ed. Bruche T. Parigi, 1758, 2 Voll., in 12°) ed un «Dictionnaire myto-hermetique» Parigi,1787) che fa testo. Le Fables furono in parte tradotte da Giacomo Catinella a Bari e pubblicate da Laterza e Polo nel 1935. Lo scritto che qui si pubblica, è la prefazione alle Favole; di altissimo interesse e di grande chiarezza, mostra che tra i maestri dell'arte erano anche e non pochi i sacerdoti di (ahimè!) nostra Santa Madre Romana Chiesa, che conoscevano la musica più lunga della litania.
La filosofia considerata in generale è nata con il mondo dappoiché in ogni tempo gli uomini hanno pensato, meditato; in ogni tempo il magnifico spettacolo dell'Universo ha dovuto colpirli di ammirazione e acuire la loro curiosità naturale. Nato per la società, l'uomo ha cercato i mezzi per viverci gradevolmente e con soddisfazione; il buonsenso, l'umanità, la modestia, la gentilezza dei costumi, l'amore di questa società hanno dovuto certo costituire l'oggetto della sua attenzione.
Ma per quanto meraviglioso, e stupefacente sia stato per lui lo spettacolo dell'Universo, qualunque beneficio egli abbia creduto poter ritrarre dalla società, tutte queste cose non erano se stesso. Riflettendo, non gli mancò l'intuizione che la conservazione del suo proprio essere non era un obbiettivo meno interessante; e bisognerebbe ammettere che egli avesse dimenticato se stesso per interessarsi di ciò che lo circondava. Soggetto a tante vicissitudini, bersagliato da tanti mali, e d'altronde creato per gioire di tutto ciò che lo circonda, egli, senza dubbio, ha cercato i mezzi per prevenire e guarire le malattie; per conservare più lungamente la vita sempre pronta a sfuggirgli. Non gli è necessitata una lunga meditazione per comprendere e convincersi che il principio che costituisce il suo corpo, e lo mantiene, era proprio quello che occorreva per conservarlo nella sua maniera di essere._
L'appetito naturale per gli alimenti glielo indicava chiaramente: ma s'accorse bentosto che quegli alimenti caduchi come lui, a cagione della mescolanza con parti eterogenee che li costituivano, apportavano, nel suo interno, un principio di morte unitamente al principio di vita. Bisognò allora ragionare sugli esseri dell'Universo, meditare lungamente per scoprire il frutto di vita, atto a condurre l'uomo alla quasi immortalità.
Ma non era sufficiente avere intravisto questo tesoro attraverso l'involucro che lo copre e lo nasconde agli occhi del volgo. Per fare di questo frutto l'uso che vi si proponeva, era indispensabile cavarlo dalla sua scorza ed averlo in tutta la sua primitiva purezza.
Si seguì da vicino la Natura, si spiarono i procedimenti ch'essa impiega nella formazione degl'individui e nella loro distruzione. Si venne così a conoscere che quel frutto di vita non soltanto era la base di tutte le sue generazioni, ma che tutto si risolveva, in fine, nei suoi propri principii. Fu dunque doveroso imitare la Natura, e, sotto una tal guida, potevasi non riuscire? A quale vastità di conoscenze non portò questa scoperta? Quali prodigi non si era in grado di compiere, vedendo la natura come in uno specchio e che la si aveva ai propri servigi?...
Si può dubitare che il desiderio di trovare un rimedio a tutti i mali che affliggono l'umanità e di allargare, possibilmente, i limiti prescritti alla durata della vita, non sia stato il primo oggetto delle ardenti ricerche degli uomini e non abbia dato origine ai primi Filosofi? Tale scoperta dovette lusingare infinitamente colui che la fece, e fargli nutrire la massima gratitudine verso la Divinità per la grazia concessagli di pregio tanto notevole. Ma nel contempo considerò che Dio, non avendo concesso questa conoscenza a tutti gli uomini, era fuori dubbio che non voleva fosse divulgata. Bisognava, dunque, non parteciparla che a qualche amico; così Ermete Trismegisto, il Tre volte Grande, il primo di tutti i Filosofi precisamente noto, non la comunicò se non a persone elette, della prudenza e discrezione delle quali era sicuro. Costoro ne misero a parte altri dello stesso loro carattere e questa scoperta si sparse in tutto l'Universo. Si videro i Druidi presso i Galli, i Ginnosofisti nelle Indie, i Magi in Persia, i Caldei in Assiria, Omero, Talete, Orfeo, Pitagora e molti altri Filosofi in Grecia, possedere una conformità di principii ed una quasi uguale conoscenza dei più reconditi segreti della Natura.
Ma questa conoscenza privilegiata restò sempre custodita in un cerchio ristrettissimo di persone, ed al resto del mondo non si proiettò se non qualche raggio di questa inesauribile sorgente di luce. Conosciuto una volta questo agente, base della Natura, non fu difficile usarlo secondo le circostanze dei tempi e l'esigenza dei casi. I metalli e le pietre preziose entrarono nella mercatura della società, í primi richiesti dal bisogno, le altre per agiatezza e per vaghezza. Ma siccome queste ultime acquistarono valore per la loro bellezza ed il loro splendore, e divennero preziose per la loro rarità, s'impiegarono le proprie conoscenze filosofiche per moltiplicarle. Si trasmutarono i metalli imperfetti in oro ed in argento, si fabbricarono pietre preziose, ma si custodì il segreto di queste trasmutazioni con la stessa scrupolosità mantenuta per quella della panacea universale, perché non si poteva svelare l'uno senza far conoscere l'altro, dato che si prevedeva chiaramente che dalla sua divulgazione sarebbero risultati infiniti inconvenienti per la società.
Ma in qual modo poter tramandare attraverso i tempi questi secreti ammirabili, e nel contempo custodirli nascosti al pubblico? Farlo per mezzo della tradizione orale, si correva il rischio di perderne persino il ricordo; la memoria è un movente troppo instabile per potervisi affidare. Le tradizioni di tal genere s'offuscano man mano che si allontanano dalla loro sorgente; sino al punto che riesce poi impossibile districare il caos tenebroso nel quale l'oggetto e la materia di queste tradizioni si trovano nascoste.
Affidare questi secreti a scritti in lingue e caratteri d'uso corrente era lo stesso, come esporsi a vederli profanati per la negligenza di coloro che avrebbero potuto smarrirli, o per la. indiscrezione di chi avrebbe. potuta capirli.
Ben più, bisognava togliere persino il minimo sospetto, se non della esistenza, almeno della conoscenza di questi secreti. Non v’era, perciò, altra risorsa che quella dei geroglifici, dei simboli, delle allegorie, delle favole ecc., che essendo suscettibili di parecchie spiegazioni differenti potevano servire ad istruire gli uni, mentre gli altri sarebbero restati nella ignoranza. Fu questa la decisione che prese Ermete, e dopo di lui tutti i Filosofi Ermetici del mondo. Essi dilettavano il Popolo con le favole, dice Origene, e queste favole con i nomi degli Dei del paese servivano di velo alla loro Filosofia.
Quei geroglifici, quelle favole, presentavano agli occhi dei Filosofi e di coloro ch'essi istruivano per essere iniziati nei loro misteri, la teoria della loro Arte Sacerdotale, e le diverse branche della Filosofia, che i Greci attinsero presso gli Egizi.
Le consuetudini, i metodi, i caratteri, talvolta anche la maniera di concepire, variano secondo i paesi. I Filosofi dell'India, quelli dell'Europa, inventarono geroglifici e favole seguendo la loro fantasia, però sempre allo stesso scopo. Si scrisse su questa materia nel prosieguo dei tempi, ma in uno stile enigmatico, e queste opere, benché scritte in lingue note, sono tanto inintelligibili quanto i geroglifici stessi. L'artifizio di spesso citare le antiche favole ne ha fatto scoprire l'oggetto: e questo mi ha lusingato di spiegarle secondo i loro principii. Allorquando s'imprendono a studiare con ostinata attenzione, e si possiede sufficiente perseveranza da prendersi la pena di coordinarle e confrontarle le une alle altre, le si rinvengono sufficientemente spiegate nei loro libri.
I Filosofi non indicano la materia dell'arte loro se non con le sue proprietà, mai col nome proprio col quale quella è conosciuta. Circa le operazioni richieste per metterla in opera, filosoficamente, essi non le hanno nascoste sotto il sigillo di un segreto impenetrabile; non hanno fatto mistero dei colori o segni dimostrativi che si succedono in tutto il corso delle operazioni. È questo che ha fornito loro particolarmente la materia da immaginare, e fingere i personaggi degli Dei e degli Eroi delle favole, e le azioni che a loro si attribuiscono; se ne giudicherà con la lettura di questa Opera.
Ciascun capitolo è una specie di dissertazione, ciò che le toglie molto per riuscir piacevole e le impedisce di essere così dilettevole come sembrava comportare la materia. Io non mi sono proposto di scrivere delle favole, ma di spiegare quelle già note. Si vedranno nel Discorso Preliminare le ragioni che mi hanno determinato a premettere alcuni principi generali di fisica, ed un trattato di Filosofia Ermetica.
Era indispensabile mettere in tal modo il lettore al corrente della condotta e del linguaggio dei filosofi dal momento che io mi proponevo di farlo entrare nell'ordine delle loro idee. Il lettore ne vedrà gli enigmi, le allegorie, le metafore di cui i loro scritti sono pieni. Se ne desidera una spiegazione più dettagliata, può compulsare il Dizionario Mito-Ermetico che ho dato alla stampa contemporaneamente.
Si domanda se la Filosofia Ermetica sia una scienza, un'arte o semplice materia di discussioni. Il pregiudizio deciderebbe in favore di quest'ultimo concetto, ma il pregiudizio nulla prova.
Il lettore senza prevenzione, dopo riflessiva lettura di questo Trattato, deciderà come gli sembrerà opportuno. Si può senza vergogna correre il rischio d'ingannarsi in compagnia di tanti sapienti, che in tutti i tempi hanno sempre combattuto questo pregiudizio. Non vi sarebbe da arrossire maggiormente a combattere con disprezzo la Filosofia Ermetica senza conoscerla, anziché ad ammettere la possibilità così ben fondata nella ragione, ed anche la sua stessa realtà emergente dalle prove riferite da un sì gran numero di Autori, la cui buona fede non è sospetta?
Almeno, non si può ragionevolmente contestare che l’idea di una medicina universale e quella della trasmutazione dei metalli, non siano state abbastanza lusinghiere per eccitare l'immaginativa di un uomo e fargli creare delle favole per esporre ciò che ne pensava. Orfeo, Omero ed ì più antichi autori parlano di una medicina che guarisce tutti i mali; ne fanno menzione in maniera così positiva che non lasciano alcun dubbio sulla sua esistenza.
Tale idea si è perpetuata sino a noi: le circostanze delle favole si combinano, si accordano con i colori e le operazioni di cui parlano i Filosofi, ed è così che si spiegano in modo più verosimile che in qualunque altro sistema: cosa esigeremo di più? . . . . Senza dubbio una dimostrazione: spetta ai Filosofi Ermetici usar questo mezzo per convincere gl'increduli; ma io non sono tale. Dom. G. A. Pernety