oltre la consuetudine, al di là del vissuto
Cos’è la vita? Una bella domanda che può contenere una miriade di risposte, di allegorie e di banalità. Se guardiamo nell’intimo, superando i luoghi comuni e le solite frasi precostituite - frutto di una retorica imperante - ci renderemo conto che in noi esiste una realtà che è posta al di fuori di qualunque ambito conosciuto e comprenderemo che non viviamo la nostra vera esistenza, ma una pallida parvenza di essa. Prigionieri di un codice morale fittizio e narcotizzante, lasciamo che il tempo passi senza reagire, senza porci domande e, soprattutto, evitando di rinvenire risposte esaustive capaci di spiegare il perdurare di questo stato di cose. Spesso è la convenzione e l’apparenza che sanciscono i rapporti tra esseri umani, non l’esigenza di interagire assieme.
Nel periodo delle festività tale aspetto si fa ancora più evidente e assume toni esasperanti in nome di obsolete tradizioni che, tra le altre cose, non corrispondono alla matrice primigenia che le ha partorite. Così, assistiamo a una sorta di mistificazione che nasce da dinamiche perverse e ottenebranti. Il Natale da questo punto di vista è la prova lampante di quanto asserito. La convinzione che questa ricorrenza sia legata alla natività del Bambino divino è ormai radicata nella mente della maggior parte degli esseri umani. Invero, ciò non corrisponde all’autentica data della Teofania Cristica, ma è legata alla nascita del dio solare Mitra, che viene al mondo in una grotta il 25 di dicembre. Mitra è colui che combatte le forze oscure e cerca di fare trionfare la Luce. Il periodo natalizio era salutato dai Romani come la festa del Sole Invictus – Dies Natalis Solis Invicti - la manifestazione del Sole Invincibile, l’astro interiore che dissipa le tenebre interne, e sorge nello spirito che anela alle forze luminose e al divino. La cultualità del Sole è riconducibile al dio della luce Baal il cui culto, attivo nella città di Palmira (Siria), fu introdotto a Roma dall’imperatore Aureliano, nel III secolo e venerato nel tempio di Campus Agrippae (l’odierna piazza San Silvestro). In seguito venne inglobato, come nel caso del mitraismo, nell’ambito del Natale cristiano. Anche l’albero, uno dei simboli più significativi delle feste, ha origini remote connesse con il paganesimo. Di certo la natura mistica e quasi casta dell’abete, imposta dalla religione cattolica, contrasta con il senso riposto racchiuso nell’emblema dell’albero il quale incarna una natura fecondante e fallica, ed è riconducibile agli antichi riti di fertilità. E’ assimilabile anche all’Albero della Conoscenza, Albero del Mondo o Albero della Vita. Come si evince sarebbe opportuno approfondire e scavare nella fitta rete di simboli, che celano un sapere apparentemente perduto generatosi nella notte dei tempi. Inutilmente si è cercato di occultarlo e dissolverlo, esso, infatti, è tornato alla ribalta e la sua forza rigenerante ha travalicato le correnti contrarie che volevano ghermirlo. Il vischio egualmente appartiene alla ritualità pagana ed era sacro ai Druidi, sacerdoti e dignitari delle genti celtiche che lo consideravano l’emblema del Sole. Simboleggiava rigenerazione e immortalità. La pianta sacrale, successivamente, è stata cristianizzata è configura il Verbo incarnato. Nonostante l’alto valore iniziatico di queste simbologie, ogni anno si assiste a una guerra intestina che divide le persone, non le unisce. Le dispute familiari si intensificano, i genitori cercano di imporre la loro volontà e i figli, presi dai famigerati e letali sensi di colpa, capitolano o si colpevolizzano nel caso in cui hanno deciso di passare le feste altrove. Un malumore diffuso e una tensione che si percepisce nettamente pervadono quell’atmosfera natalizia che dovrebbe essere foriera di serenità, almeno secondo i dettami di una desueta visione cattolica. Suocere invadenti e determinate a insinuarsi nelle quiete domestica degli sposi, creano violente liti che ingenerano in molti casi la fine di un rapporto, l’alterazione dei delicati equilibri che sottendono all’armonia coniugale. Spesso non è il desiderio di comunicare o di sentirsi affini che prevalgono in questi ambiti, ma solo l’abitudine o una scelta che nasconde il peso di generazioni passate: “Mi comporto in questa maniera perché in tal modo faceva mia madre, mio padre…”. La cosa più desolante è che nemmeno per un istante si pone in dubbio quanto ereditato a livello comportamentale; difficilmente viene da chiedersi se quelle scelte erano giuste. Si accetta tutto passivamente, lasciandosi vivere, andando lentamente alla deriva. I conflitti, durante il desco comune della Natività si inaspriscono, pongono in rilievo lo specchio delle diversità, riflesso di una separazione interiore che ciascuno incorpora, e danno vita a vere e proprie fazioni che delineano in maniera incontrovertibile posizioni equidistanti. La fiera delle vanità compie il suo corso e l’ipocrisia, la moda dell’apparire, prevale sulla necessità di essere sé stessi. Non c’è niente di genuino nel convivio natalizio, nulla di spontaneo, ma solo la messa in opera di un copione tante volte interpretato. Ciascuno recita la sua parte da protagonista, comprimario o comparsa e la commedia della vita, il teatrino dell’assurdo va in scena. In questo spettacolo di varia umanità qualcuno sfrutta la situazione a proprio vantaggio, altri subiscono, muoiono dentro e i loro sentimenti vengono calpestati, di qui alla depressione il passo è breve. La mancanza di consapevolezza causa il delirio. Per questa ragione è indispensabile pensare con la propria testa, conoscersi intimamente e lasciarsi catturare dal gorgo della vita per affrancarsi dalla schiavitù dei sentimenti imposti, da quel senso del dovere che lacera lo spirito. E’ proprio questo il messaggio insito nel Natale delle origini, la cui impronta iniziatica sanciva il patto con le forze luminose, la rinascita, la morte dell’individuo aggiogato alle correnti profane e destabilizzanti. Attraverso il cambiamento si attua la realizzazione dell’uomo storico, l’autentico essere occulto che dimora nel profondo. Se non si è fedeli alla vera natura che ci compenetra, si rischia di rimanere asserviti alla forza larvale delle consuetudini. Gli anni volano e a quel punto il dormiente, il sacrificato, diviene cosciente e si rende conto che non ha amato, non ha è respirato la vita a pieni polmoni, non ha vissuto, non è riuscito a tirare fuori la passione, il proprio eros, non ha colto l’attimo fuggente, ma ha sprecato se stesso in nome di valori coercitivi. Prigioniero del passato, della sua stessa incapacità reattiva, si spegne poco a poco e lentamente scivola nell’oblio. Ma la vita non gli verrà restituita, non ci saranno medaglie per la sua condotta ineccepibile mirata a conciliare l’inconciliabile. Alla fine, conscio del fatto che i suoi atti non hanno sortito alcunché e che le cose sono immutate, vivrà quel che resta rimpiangendo il sapore della libertà, di quel soffio di sogno che è sfumato miseramente. Solo, povero spettro senza identità, trascinerà il suo essere inconsapevolmente, ma con la certezza e la consapevolezza di avere sbagliato tutto. Riuscire a vivere senza padroni, condottieri del proprio destino, almeno di quella parte che possiamo guidare, questa è la strada. Solo allora il Sole Invictus spazzerà via le tenebre, le ombre e i fantasmi che assediano la mente e lo spirito. Solo in quel momento saremo liberi, e la Luce segnerà il cammino verso gli orizzonti lontani, al di là di un vissuto sancito all’insegna della infelicità. Finalmente liberi, anche di poter sbagliare. Ma coscientemente, non indotti.