Un giorno di primavera mi recai presso la riva del mare, per dare requie ai turbamenti dell’animo mio inquieto e per cercare quelle risposte che l’Urbe, con la sua brulicante suburra e con il suo assordate frastuono di etnie lascive e fuggenti, mi impedivano di ricevere dagli Dei. I candidi gabbiani seguivano le onde spumeggianti che infrangendosi contro le rocce aguzze e frastagliate, sembravano percuotere la battigia come i Salii battono i loro Ancilia in onore del Padre loro, divoratore di vite e tessitore di lepidi sudari. Chiusi le palpebre e le mie mani, rivolte verso l’immensa distesa di cobalto, assorbirono, con brevi movimenti, l’energia dei raggi tiepidi del sole, impossessandosi della loro essenza più riposta.

La mia lingua si sciolse in una preghiera antica, mentre con il pollice destro disegnai nell’aria tumida di leggere presenze, l’arcano nome della città sacra. Il cielo si tinse di bruno come il manto di un orso e l’aria, fino a quel momento trasparente come il ghiaccio estratto dalle algide viscere dei monti, venne contagiata dall’odore pungente del fumo. Urla e strepiti d’armi si confondevano con lo stridere della marea mugghiante ed il suono possente dei corni di guerra ferì le mie orecchie, fino a farle gemere di dolore.

Il mare divenne livido come sangue rappreso ed i flutti presero a ruggire, mentre una colonna d’acqua si levò maestosa dinnanzi ai miei occhi, materializzando una sterminata distesa di cavalieri, in groppa a destrieri dal mantello purpureo. Dinnanzi a sì grande spettacolo, mi inginocchiai, mentre la legione guadagnò rapidamente la riva, disegnando nella sabbia impronte fradicie d’acciaio. Alla testa delle truppe, scorsi colui che sembrava essere il duce di quella terribile masnada di spettri, partoriti dalle onde. Egli mi apparve come un uomo eccezionalmente alto, dalla corazza di bronzo, sulla quale erano ritratte scene di battaglia che, al mio sguardo, presero improvvisamente ad animarsi con inaspettato vigore. Gli occhi del generale erano terribili ed il suo cavallo, torbido come la pece, lanciava sguardi balenanti di fuoco e sangue.

Subito pensai che fosse giunta la mia ora fatale e che quell’essere misterioso era giunto dinnanzi a me, per condurmi con sé nel regno dei morti. Egli mi si avvicinò a lenti passi. Potevo udire distintamente il tintinnio del manico della sua spada cozzare contro la sua corazza, mentre il suo respiro pallido e possente inondava l’aria di lingue incandescenti. «Alzati, Julianus», mi disse. «Io sono colui che è stato, che è e che sarà. Io sono colui che chiami Padre e sono il guardiano di Roma e del suo popolo».

Dopo avere pronunciato tali parole, mi posi in piedi, mentre egli si chinava a raccogliere una manciata di sabbia dal terreno. «Prendi!», mi disse con tono imperativo e tutt’altro che rassicurante. Ed io obbedì, allungando la mano tremante verso di lui. «Questo è il nulla», esclamò con un velo di amarezza nella voce roca e vivace. «E nel nulla torneranno le pietre levigate dalla mano paziente dell’artigiano operoso e gli alabastri, con i quali la nostra città fu edificata dai tuoi padri…

Tu che forgiasti il tuo spirito sui campi di battaglia, ove i corvi crudeli banchettavano con i cadaveri dei caduti, senza discernere il romano dal barbaro, non dimenticare le mie parole. Non cercare gli Dei fra le mura dei templi sontuosi traboccanti di tesori, poiché questi saranno presto cumuli di macerie che inghiottiranno l’oro e l’argento dei sacri arredi. I sacerdoti moriranno e le loro ossa biancheggeranno al sole, mentre l’energia vitale che i nostri padri vollero imprigionare fra le mura dell’Urbe, scomparirà per sempre, lasciando fantasmi di pietra, quali vacui simulacri dell’antica gloria di un popolo fiero e bellicoso. Roma non è fra le sue rocce trasformate dallo scalpello in case ed in regge sfarzose. Roma vive nell’aria, nel vento cocente e gelido, nel mare percosso dalla tempesta. Essa domina ed impera sui monti innevati, come sulle stelle fisse del firmamento. Roma è in questo esercito di anime partorito, con AmoRe, dalle onde di questo mare immenso e che presto tornerà negli Elisi, per vigilare su coloro che, liberati dalla cecità, saranno prescelti dagli Immortali, per incidere un nuovo solco con il possente aratro dell’Eroe. Solo allora Verità e Giustizia discenderanno sulla terra, calpestando i cadaveri putrescenti di un mondo decadente e divorato dai demoni dell’odio. Solo allora una nuova alba sorgerà; un’aurora accecante di luce che annuncerà l’avvento di un nuovo Cesare. Ed egli finalmente giungerà a cavallo di un’aquila dalle ali sfavillanti d’oro, per giudicare ed assolvere, come per condannare implacabilmente gli artefici del crepuscolo dei Numi».

Dopo avere pronunciato queste parole, il generale montò in groppa al proprio destriero ed invitò la sua armata a seguirlo nel mare tempestoso. L’esercito si immerse rapidamente nelle profondità degli abissi, scomparendo ben presto alla mia vista.

Ed io compresi…Mio Padre mi aveva parlato ancora una volta con sorprendente chiarezza. Abbandonai così il mio ufficio di sacerdote nel tempio di Marte Ultore e da quel giorno vagai come pellegrino alla ricerca di quel luogo di Luce che non più avrei ritrovato fra le sale solenni e le spente foreste di alabastro dell’Urbe terrena.

JULIANUS

Fraternitatis Mavortis Ultoris


(Tratto da ereticamente.net che ringraziamo per la gentile collaborazione)

 

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