“Ognuno deve partecipare alla catena come una individualità,
come una forza distinta”
(Istruzioni di catena, Introduzione alla Magia, vol. II, Edizioni Mediterranee, Roma 1987, p. 38)
Quando si ebbe l’idea e sorse la concreta intenzione con gli amici dell’associazione culturale di Napoli Il Cervo Bianco di dedicare gli studi del III Simposio internazionale di studi ermetici al 90° anniversario del Gruppo di Ur, fu già messo in contatto che prima e dopo tale manifestazione (che ha visto la gioiosa partecipazione di 200 persone provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa) si sarebbe scatenata la gara all’appropriazione indebita, intellettualmente intesa, tra le varie sette neoevangeliche del neospiritualismo italiano.
Quando scientemente si pone in essere un’operazione di riscoperta dottrinaria, operativa e documentale di uno dei più famosi sodalizi esoterici italiani del ‘900, evidenziando la caratura prismatica, cioè compartecipativa di più filoni diversificati dell’esoterismo italiano, ed a-religiosa di tale esperienza, è quasi fisiologico che i dogmatici del sottobosco di natura cristianeggiante o neopagano abbiano un fastidioso travaso di bile, perché ogni falsa legittimazione viene a sciogliersi come neve al sole e perché emerge inevitabilmente la natura devozionale e mistica di un novello approccio al Sacro, che molto sa di moderno e poco di arcaico.
In questo nostro scritto che si comporrà di due parti, infatti, ci occuperemo prima del rapporto reale che Ur ebbe con la Tradizione di Roma e successivamente delle esperienze associative del dopoguerra che ebbero, vollero o provarono a perseguire un medesimo indirizzo realizzativo, e non per uno sterile spirito polemico, ma per riconsegnare l’autorità in tali materie agli unici riferimenti che ne possono essere autentici depositari ovvero le fonti, gli scritti, le testimonianze dirette, tralasciando le panzane di taluni che ogni tanto, urbi et orbi, online su facebook, si autoproclamano detentori della vera sapienza iniziatica o della vera tradizione romana. Nel merito, se è vero che nell’ambito delle monografie e della catena operativa di Ur riemerse uno specifico connotato pagano e bene intendersi sui termini e sui significati che i protagonisti assegnarono agli stessi termini. Il direttore della rivista, Julius Evola, nella sua autobiografia spirituale fu al quanto circostanziato nel sintetizzare il senso di tale sodalizio:
“Tornando dunque al periodo in cui fu scritta l’edizione di Imperialismo pagano, questo libro uscì quando si era già costituito (al principio del 1927) il Gruppo di Ur (la parola Ur era tratta dalla radice arcaica del termine <<fuoco>>, ma vi era anche una sfumatura additiva, pel senso di <<primordiale>>, <<originario>>, che essa ha come prefisso in tedesco). Ciò che riporta al dominio dell’esoterismo. Già il Reghini, quale direttore della rivista Atanor e poi Ignis (due pubblicazioni che ebbero brevissima vita), si era proposto di trattare le discipline esoteriche e iniziatiche con serietà e rigore, con riferimenti a fonti autentiche e con uno spirito critico. Il Gruppo di Ur riprese la stessa esigenza, però accentuando maggiormente il lato pratico e sperimentale” (J. Evola, Il Cammino del Cinabro, Edizioni Mediterranee, Roma 2014, p. 157).
Dal nostro punto di vista già questo breve passo evoliano basterebbe a chiarire moli voluti malintesi su Ur, che si proponeva essere una realtà esoterica e non religiosa, che aveva nel proprio appellativo la volontà di riferirsi alla Tradizione nella sua dimensione trascendente ed originaria, senza un riferimento specifico ad una delle tante formulazioni storiche della stessa: in merito non si comprende, altrimenti, perché non si sia voluto dare come appellativo quello di “Gruppo di Cristo”, “Gruppo di Marte” oppure “Gruppo di Buddha”. Lo stesso Evola fu al quanto chiaro in merito:
“Comprendiamo dunque perché Guénon dica che non si possa essere antireligiosi senza essere antitradizionali, ma non possiamo certamente seguirlo. Affermiamo invece il contrario, ossia che quanto prima gli occidentali si sbarazzeranno della «religiosità», tanto meglio sarà per essi, e tanto più prossima, forse, sarà una soluzione di salvezza sulla loro linea. Dinanzi alla «tradizione», arbitrariamente identificata ad un legame di carattere religioso, gli occidentali dovranno ben tenere ad essere «senza tradizione»; ma appunto in questo esser «senza tradizione» ne costituiranno una — improntata dal carattere libero, guerriero, nordico-mediterraneo una volta che il necessario contatto con ciò che nell’uomo va di là dall’uomo sia avvenuto” (EA, Sul “Sapienziale” e l’“Eroico” e sulla Tradizione Occidentale, n. 11-12 ANNO II di UR, novembre-dicembre 1928, ora ristampato da Arcana di Edit@ in Julius Evola, La Tradizione Occidentale…).
Dinanzi alle accuse di individualismo e magismo spurio di qualche pontefice marginalizzato, è possibile constatare come ci sono i testi a rispondere, ci sono le famose Istruzioni di Catena dello stesso Gruppo di Ur che si rendono chiarificatici, che denotano come la pratica, oltre la dottrina, fosse volta ad un risveglio individuale del singolo operatore (la nostra citazione d’incipit) tramite una maieutica tanto rituale tanto ascetico – meditativa, comune alle scuole che in Ur fornirono il proprio contributo: si pensi, per esempio, alla pratica del Sole di Mezzanotte che assumeva una valenza primaria sia nella scuola pitagorica (si rammenti il famoso esperimento di Reghini ed Armentano seduti al caffè), sia in quella antroposofica che in quella ermetica.
Ma, allora, cosa si volle intendere per Paganità? Il recupero da fonti frammentarie, incomplete (di ciò fu già testimone Varrone nel suo De Lingua Latina) di una religiosità popolare e privata? Nulla di tutto ciò albergava nella mente di Reghini, di Parise, dello stesso Evola. La prima risposta ci giunge dal Maestro di Arturo Reghini, cioè da Amedeo Rocco Armentano, quel Reghini che un giorno viene osannato come epigono della Roma pagana ed il giorno seguente osteggiato per aver ravvisato nella stessa una chiara matrice magico – pitagorica, di natura sapienziale:
“Imperialismo Pagano non significa un ritorno al Paganesimo, ma alla Romanità, cioè a quell’idea dell’Unità che nacque in Roma ma che è Universale ed Eterna…un movimento riallacciantesi sul serio all’antica sapienza pitagorica, occidentale e, più che mediterranea, tirrenica” (AR Armentano, in Le interviste ad Ara, Così tacque Pitagora, in Massime di Scienza Iniziatica, Ass. Culturale Ignis, Ancona 2004, p. 331).
Anche nelle parole di ARA ritorna il principio dell’universalità e della sapienzialità a-religiosa che veniva conferito alle loro esperienze iniziatiche, che per essere tali, appunto, non potevano presentare alcun connotato di misticismo. Oltre ad ARA, poi, la dimensione mediterranea riferita all’Imperialismo Pagano non presentava quei connotati religiosi e dogmatici tipici del neopaganesimo contemporaneo, se sempre lo stesso Reghini scriveva riferendosi a Cagliostro e Mosè:
“…nella tradizione esoterica mediterranea (ebraica, cristiana, pagana ed ermetica) in relazione alla grande opera della rigenerazione iniziatica” (A. Reghini, Sulla quaresima iniziatica, Ignis, nr. 11-12 Novembre-Dicembre 1925).
In verità, il connotato misticheggiante non era caratteristica neanche della Roma Arcaica, se il più importante antropologo italiano nei suoi studi sulla classicità, ha potuto magistralmente notare come la cosmopoiesi prospettata della Civitas Romana come istituzione sacralmente e giuridicamente fondatrice di una visione nuova della vita, realizzasse un nuovo Patto con gli Dèi, potendo i Romani essere considerati “facitori” del Sacro, coloro che noeticamente poterono alchimicamente “costruirli”i Numi, in quanto espressione dell’anima del Popolo e la Patria non essendo espressione di Divinità teisticamente distaccate nel trascendente:
“Una specifica divinità nasce per la comunità che la onora…in coincidenza con la cerimonia pubblica che ne consacra il tempio e ne sancisce l’ingresso nella Città” (Maurizio Bettini, Déi e uomini nella Citta, Carocci Editore, Roma 2015, p. 21).
Si conosceva la Vis, in ambito di quella che era la “interpretatio deorum”, come metodo congetturale di trasposizione cultuale tra religiosità differenti, quale entità unica per il riconoscimento del Numenico. Essa era, è la natura interna del Dio, la conoscenza di esso, che non si configura tramite comparazioni formalistiche o cerimonialistiche, ma tramite la sperimentazione del proprio potere, l’identificazione con esso. Il rigorismo romano, cioè la pretesa secondo la quale ci fosse una norma immodificabile nei secoli, non solo è stato rigettato da un esimio studioso come John Scheid che ha scritto di “religioni romane” (Rito e religione dei Romani, Sestante Edizioni, Bergamo 2009), ma ha condotto a deliranti deduzioni secondo le quale neanche la riforma augustea, Virgilio o Macrobio potrebbero essere annoverati nel prisco purismo romano.
Sorge, a tal punto, un quadro al quanto in contrasto con certe ricostruzioni maldestre che pretendono che Ur fosse stata una manifestazione di un risorgente paganesimo di natura fideistica (si osservi, in merito, quanto fu stucchevole una certa polemica sulla celebre affermazione plutarchea sulla morte di Pan, che un ottundimento palese non può sospettare essere non la dichiarata morte del Divino, che è metafisicamente impossibile, ma la profonda difficoltà dell’uomo moderno di percepirlo come nei primordi), semplicemente perché il piano di riferimento, essendo essenzialmente di natura magica, ha paradigmi differenti rispetto alle litigiosità religiose, di cui il Sapiente magistralmente non si cura. Sempre in riferimento a Reghini ed alla Schola Italica spesso chiamati in causa a sproposito, si dovrebbe spiegare come mai il simbolo della stessa paganissima compagine sia stato San Giorgio, santo cristiano prefigurazione allegorica del Marte Romano, come mai in tutti i testi del Pitagorico fiorentino vi sia un continuo riferimento all’alchimia, alla cabala, come mai in un saggio di Giulio Parise (Luce, Le parole di Potenza e i caratteri degli enti, Ur 1927) , discepolo diretto del Reghini si presenti un’attenta descrizione della palingenesi in chiave cabalistica, o come nel rituale riportato dallo stesso Parise (Luce, Istruzioni di Magia Cerimoniale, Ur 1927) si operi l’invocazione dell’Arcangelo Solare usando il riferimento di Pietro d’Abano, lo stesso dei novizi myriamici nella pratica primaverile del rito d’Ariete, ma soprattutto in cui viene evocato il terribile spirito del deserto Adonay, spauracchio dei farisei pagani. E’ necessaria, a tal punto, una chiarificazione: o Reghini e Parise erano anch’essi posseduti da tale demone sublunare oppure il riferimento magico (le monografie di Ur si intitolano non casualmente Introduzione alla Magia e non come fanno intendere taluni Introduzione alla Religione oppure Introduzione al Paganesimo) declinava una portata originaria, primordiale, come ci ricordava all’inizio Evola, tale da trascendere ogni riferimento etnico – religioso, ma centrandosi appunto sull’Io, sul suo risveglio interiore e non su culti e preghiere. Qui si palesa un latente bipolarismo psicologico o una semplice malafede interpretativa. Oppure vi è stato un altro Arturo Reghini, di cui non abbiamo notizie, non essendo la stessa personalità che, non solo all’inizio degli anni ’40 aderì al kremmerziano Circolo Virgiliano di Roma, ma fu iniziato nel 1902 a Palermo al rito egizio di Memphis, ma soprattutto fu VI grado onorario dell’Ordo Templi Orientis di Aleister Crowley (R.A. Gilbert, Baphomet and Son: A Little Known Chapter in the life of 666, Holmes Pub Group 1997, p. 6; l’OTO figura anche tra le filiazioni affratellate del Rito Filosofico Italiano di Frosini, a cui furono iniziati sia Reghini che Armentano, come si evince dagli Annuali dello stesso RFI, vol. 1, Aprile 1913 ), oltre che tra i fondatori della Lega Teosofica Indipendente d’Italia.
D’altronde quando in Ur si accenna alla Paganità ci si riferisce al caldeo – egizio Giamblico, al neoplatonico Plotino (Massime di Saggezza Pagana, Krur 1929), ci si riferisce ad una Romanità Arcana (i saggi di Reghini sulla Tradizione Occidentale in Ur 1928, di Evola sul Sacro nella Tradizione romana in Krur 1929, del kremmerziano Abraxa sulla Magia della Vittoria in Krur 1929), in cui non vi sono Divinità da onorare o supplicare, ma ci sono forze interne da riconoscere e sperimentare:
“Si può dunque parlare con diritto di una concezione attiva-intensiva del sacro, specificatamente romana…noi sappiamo anche che questi modi di una esperienza mediata e mitologizzata sono inferiori rispetto ad una esperienza diretta e assoluta, cioè senza forme e senza immagini…muta, essenziale” (Ea, Sul <<sacro>> nella Tradizione Romana, Krur 1929);
“Sul piano della magia conoscerai un mondo ritornato allo stato libero, intensivo ed essenziale, in uno stato, in cui la natura non è natura, né, lo spirito, <<spirito>>, in cui non esistono né cose, né uomini, né ipostasi di <<dèi>> – ma poteri” (EA, Sulla visone magica della vita, Ur 1927).
Come predetto, le fonti e i documenti sono cristallini e non concedono spazio alle fantasiose ricostruzioni del neopaganesimo contemporaneo, adesso che anche il famoso affare Ekatlos (La scena e le quinte, Krur 1929) , dopo le ricerche di studiosi di vario orientamento, è stato ricondotto nell’ambito che le testimonianze dirette hanno qualificato, cioè l’ambiente ermetico della Roma dei primi anni del ‘900 e non casualmente un acuto studioso ha annotato:
“…si sarebbero manifestate all’ interno della Fratellanza Terapeutica di Myriam, fondata da Giuliano Kremmerz (cioè Ciro Formisano) – che la definì talvolta come Schola Italica – determinate influenze derivanti dall’ antica tradizione romano – italica” (Renato Del Ponte, Il movimento tradizionalista romano nel Novecento, SeaR Edizioni, Scandiano 1987, p. 26).
Non è, infatti, casuale che un altro acuto studioso del tradizionalismo romano, quale è Sandro Consolato, nell’articolo “La Grande Guerra degli Esoteristi”, apparso sul settimanale Tempi, nello scorso Ottobre, abbia ricordato, oltre l’affare Ekatlos, come nell’ambito del mondo myriamico ci fosse “il rito del Pretium, forse di origine romana, comunque antichissimo ed assai complesso”, affidato da Kremmerz ai suoi sodali che partivano per il fronte, celato ora negli archivi della Fratellanza, appellando, inoltre, Reghini ed Armentano quali “nostri Magi”.
In questa prima parte, un ultimo chiarimento va posto in essere inerente la catena operativa di Ur. Sulla questione vari orientamenti si presentano, ma principalmente due visuali si contrappongono: l’interpretazione che ritiene la catena di Ur formata, come la rivista, dall’apporto di esoteristi di provenienza diversificata (pitagorici, kremmerziani, antroposofi, …) e la decifrazione che ritiene che essenzialmente la catena di Ur fosse stata coincidente con la catena pitagorica facente riferimento alla Schola Pitagorica. Noi non entreremo nel merito della questione sia perché non è questo l’ambito in cui si possa argomentare sufficientemente in merito sia perché la documentazione di accompagnamento che verrà prodotta nella pubblicazione degli atti del convengo di Napoli del 14 Ottobre 2017 su Ur reputiamo possa contribuire ad un notevole sviluppo della ricerca. Nel merito del nostro discorso, però, essendo la seconda interpretazione spesso usata ad usum delphini da chi vagheggia di una religiosità romana e pagana rediviva, è importante chiarire che quanto è conosciuto e posseduto in ambienti ermetici circa la ritualità attestata ed attribuita alla Schola Italica, di dottrinalmente confermato della stessa ci riconduce ad una prospettiva pitagorica, come preannunciato, ma soprattutto magico – rinascimentale. Nei testi di Giulio Guerrieri – esponente di massimo rilievo di tale filiazione -, della figlia Viviana, negli scritti di vari esponenti pitagorici riemerge la famosa palestra spirituale con pochissimi riti (anche con l’uso di salmi davidici) di reghiniana memoria, riemerge la pratica dell’estasi filosofale dello pseudo – Campanella (probabilmente Bruno), del quale a Torre Talao si conservavano raffigurazioni alle pareti, riemerge la passione per il cabalista Cornelio Agrippa a cui Reghini dedicò una splendida introduzione al De Occulta Philosophia, per l’alchimista Sendivogius, riemerge tra i componenti della catena pitagorica e di Ur un certo Procacci, definito “cabalista” ed “ebraista” (tutte le informazioni riportate si possono ritrovare in Roberto Sestito, Il figlio del Sole, vita e opere di Arturo Reghini, Associazione culturale Ignis, Ancona). Infine, quando si ricollega la filiazione italica – come fa anche Roberto Sestito in un modo però prudentemente saggio – ai cosiddetti Fratres Lucis, facendo intendere l’esistenza di chissà quale continuità romanissima e paganissima, ci si guarda bene dallo specificare la derivazione degli stessi Fratres Lucis, cioè inerente un latomismo anglosassone prettamente rosacrociano, cioè un po’ proto-cristiano come lo Steiner, su cui si argomenta spesso a sproposito.
Dopo tutto ciò ci si domanda, insieme ai tanti lettori di EreticaMente, dove emerge la tradizione avita di religiosa e mistica memoria? Forse semplicemente nella fantasia tolkieniana di chi abbisogna di una giustificazione, di una consacrazione che non vi è e non esiste e che andrebbe ricercata dall’Alto o nella pratica interiore e non rubacchiando a casa d’altri. Ur, pertanto, torni ad essere il riferimento della Scienza dell’Io, della trasmutazione animica, in senso interiormente ed ermeticamente romano, concependo tale aggettivo come una qualità dello spirito, come ha magistralmente esplicitato l’amico Giandomenico Casalino nei suoi saggi sul Nome Segreto di Roma e sul rapporto tra Tradizione Ermetica e Tradizione Romana (leggere anche gli scritti di Pio Filippani Ronconi in merito) e non come un formalismo neopaganeggiante di sfondo pretistico. Chi oggigiorno persegue una via sacrale alla Romanità ha tutta la libertà e la dignità di perseguirla, come fatto con scrupolo e profondità dagli amici fraterni dell’Ass. Tradizionale Pietas e dell’Ass. culturale Fons Perennis, che ai Sacra Privata, al Calendario, al “colere Deos” assegnano la doverosa dimensione introspettiva, coniugando la Tradizione Una quale espressione dello Spirito originario e primordiale. D’altronde, che l’Aeternitas Romae non potesse essere confinata in un passatismo esteta delle ceneri e non della sua perennità spirituale, avendo come unica opportunità di valorizzazione la dimensione magico – teurgica (senza, qui, entrare nel merito di ciò che tecnicamente accomuna ma anche differenzia questi due aggettivi), è ciò che un brillante Mario Basile ha espresso ultimamente sul sito Saturnia Tellus, in cui archeologia e filologia siano intese come scienze necessarie (e quindi affidate agli specialisti delle materie e non ad avventurosi interpreti) ma non sufficienti alla comprensione dell’essenza viva ed intima della Romanità, che è fondamento magico – giuridico. Pertanto, la nostra devesi intendere non come un’accusa alla Romanità ma una strenua difesa della stessa, dal materialismo, dall’ateismo formalista, dalle sette marginali e sparute del neospiritualismo in cui il livore personale, l’invidia, l’isterismo anti – iniziatico manifestano l’infondatezza di una presunta e senatoria gravitas romana, acquisita purtroppo solo sulle bacheche di facebook. Rispetto a tutto ciò, Ur segna una direzione semplicemente diversa:
“Sta bene attento e guarda in giro che non abbia a sentirci uno dei non iniziati. Questi sono coloro che credono che non ci sia niente altro se non quello che possono saldamente afferrare con le mani: ma azioni, generazioni, e tutto quello che è invisibile, non lo accettano come parte dell’Essere…“ (Platone, Teeteto, 155e)
(continua…)
Ringraziamo Ereticamente.net per la collaborazione