Anime, spettri e spiriti tutelari.

Uno sguardo sull’interiorità presso i Nativi del Nord America – Simöne Gall

Fantasma (dal greco antico phàntasma, “mostrare”), spettro, corpo animico di sostanza rarefatta, quello stesso che appare in veste di protagonista nelle storie di folklore. Inalveatasi nell’immaginario collettivo è anche l’idea che questa presenza incorporea potesse penetrare le mura domestiche, da quelle di antichi castelli e prestigiose magioni a quelle di edifici non propriamente aristocratici. Il fantasma, in ogni caso, resta il latore per antonomasia dello spavento, nei racconti della grande letteratura (Henry James, H. P. Lovecraft, pescando due nomi a caso) così come nel Cinema orrorifico e del fantastico. 

Pensiamo, in questo senso, al popolarissimo Shining (il pilastro di celluloide kubrickiano, più che il valido best-seller di S. King) o a un film, forse un po’ meno noto al grande pubblico, come Poltergeist (Polter, “chiasso” e Geist, “spirito”, dal tedesco) di Tobe Hooper. In Shining sappiamo che gli spiriti si manifestano agendo in maniera subdola e scellerata sull’apparato psichico del protagonista Jack, cui viene assegnato di portare a compimento, come forse ricorderemo, una missione non propriamente pacifica: quella di sbarazzarsi a ogni costo della sua famiglia giudicata ingombrante da quegli stessi spiriti che da tempo immemore abitano il celeberrimo Overlook Hotel. Tra le apparizioni di Shining che angustiano maggiormente – e che si mostrano in forma esclusiva agli occhi del figlio di Jack, Danny, super-bimbo dotato di poteri extra-sensoriali – si annoverano, e risulta piuttosto difficile dimenticarsele, proprio due “amabili” gemelline monozigote. Scorrendo tra le pagine del prezioso saggio concepito dal fu etnologo ed esperto studioso di sciamanismo Ake Hultkrantz, “Concezioni dell’Anima tra gli Indiani del Nord America” (Collana “Altra Conoscenza”, Edizioni Ester [Caprie – Torino, 2016] pp. 280 euro 18), leggiamo di come certi popoli tendessero a considerare i gemelli “esseri dotati di poteri speciali”, la cui forza doveva essere attribuita a una qualche indubitabile presenza ultraterrena. Non sappiamo, in realtà, e nemmeno è essenziale appurarlo in questa sede, se e quanta nozione avesse Kubrick di certo animismo nordamericano; sappiamo, e forse non è un caso, che la trama del suo film (così come quella di Poltergeist) va a innestarsi sulla visione dell’edificio costruito su di un cimitero indiano. Nondimeno, un certo qual timore rispetto alla possessione e alle visite notturne da parte di siffatti spiriti agitati aveva largamente preso piede fra i Nativi di tutto il Nord America. Il testo di Hultkrantz (che è la prima traduzione italiana di un saggio intitolato Soul And Native Americans) si occupa di narrare la spiritualità di coloro i quali si è soliti definire, da tempo ormai immemore, “Pellirosse” o “Pellerossa”; non è però un libro generico e divulgativo sulla spiritualità degli Indiani d’America. Il trattato, come appunto recita il titolo, è un’indagine approfondita sulle multiformi concezioni che questi antichi popoli attribuivano al delicato tema dell’anima e al sistema dualistico ad esso relato. Il dualismo assoggettato all’anima, in questo caso, va ricercato nell’idea che l’anima disponesse di varie forme dal momento che la sua presenza non solo avrebbe reso possibile la vita fisica dell’uomo, ma avrebbe anche scortato quest’ultimo nell’universo del trascendente. L’interazione fra la cosiddetta anima libera e le varie altre anime citate da Hultkrantz (es: anima del respiro, anima onirica, anima dell’Io) diede quindi origine ad un credo dualistico dell’anima. Immaginiamo che, in un’azione reciproca, la vita dell’individuo e quella del suo Io si alternino allo stato di coscienza. Nei momenti in cui la persona è cosciente e fisicamente attiva, le sue anime entrano in funzione per permettere all’apparato motorio, alla comprensione, al sentimento e alla forza di volontà di svolgere il proprio lavoro di funzioni speciali, fondamentali per la vita dell’individuo.

Tutte queste visioni possono essere incanalate nella sfera del cosiddetto “Animismo”. Come spiega l’antropologo E. B. Tylor, uomini di una primordiale umanità dovevano essere stati percossi da una serie di aspetti della loro vita fisica e psichica al punto da farne oggetto di meditazione e teorizzazione. In particolare, due pensieri avevano colpito l’attenzione di questi soggetti. In primo luogo, che cosa fa nascere la differenza tra la vita e la morte, tra un corpo vivente e un cadavere; in secondo luogo, cosa sono quelle figure umane che appaiono nei sogni e nelle visioni che sembrano essere umani ma non ne possiedono le caratteristiche e le qualità fisiche. Da qui la teoria dell’esistenza di una forza vitale che genera il movimento e la dinamicità degli esseri viventi e che diparte dal corpo nel momento della morte, più un’immagine-fantasma che può agire in forma indipendente dal corpo che la ospita e di cui riflette l’immagine: può quindi produrre in sogno l’impressione di viaggiare o di trovarsi in posti lontani o sconosciuti e può essere scorta da altri individui durante il sogno all’insaputa del corpo fisico con cui si trova legata. Queste concezioni costituivano il fondamento per l’elaborazione di una teoria unificata dell’esistenza di anime e spiriti.

Altri studi sull’Animismo si trovano anche nella letteratura psicoanalitica. All’interno di Totem e Tabù di Freud l’Animismo è da considerarsi una fase primigenia dello sviluppo sociale. Una più recente chiave di lettura di stampo junghiano dichiara invece che esso nasce preferibilmente da una psicologia estesamente imperniata sugli aspetti soggettivi della psiche, come possono esserlo quelli della percezione e dell’intuizione. Da tale assunto sarebbe sorto un sistema culturale fondato sulla proiezione dell’inconscio sulla Natura, sui luoghi divini o attraverso l’identificazione con gli spiriti degli animali totemici. Le antiche popolazioni nordamericane non potevano quindi esimersi dal domandarsi
cosa dovesse o potesse accadere a un corpo giunto al termine della sua vita fisica. Da questo ancestrale quesito essi avevano consapevolmente sviluppato un vasto repertorio di leggende circa il destino dopo la morte. La domanda delle domande era appunto questa: cosa succede all’anima dopo che il soggetto muore? Vi sono, innanzitutto, tre questioni da tenere a mente. La prima: l’anima e l’individuo sono la stessa cosa? La seconda: se esiste un’identità, quale delle anime è responsabile della vita e della coscienza dell’individuo? La terza: è lecito tracciare un parallelo fra le differenti anime e le varie forme o sembianze che il morto può assumere? Come sostenevano alcuni studiosi come Feurerbach, “il morto è l’immagine della memoria di una persona precedentemente esistita. Alla morte, questa persona rivestirà una nuova forma di esistenza”. In alcuni casi, la persona morta veniva chiamata semplicemente “il trapassato”, mentre in altri casi si utilizzavano termini diversificati che avevano come riferimento sia la figura del morto sia quella delle anime. In questa connessione, l’anima (ovvero una di esse) sarebbe rimasta in modo perpetuo accanto al deceduto.

Possiamo oltremodo affermare che diversi popoli, come ad esempio quello degli Eschimesi, ma anche tutti gli Indiani della zona nord occidentale fino alla California, compresi gli Algonchini centrali, nutrivano un’indubitabile preoccupazione rispetto al tema della perdita dell’anima. Stesso discorso valeva per gli Athabaska, gli Shoshoni e le tribù del ceppo Yuma. E’ importante porre una certa distinzione, comunque, fra la perdita dell’anima e le varie peregrinazioni extra-corporee dell’anima. Soltanto quando il sognatore scopriva che la sua anima era scomparsa o si era allontanata verso un luogo dal quale non riusciva a fare ritorno (come poteva esserlo il regno dei morti) si parlava di perdita dell’anima.

L’anima, e ciò è fondamentale capirlo, era percepita dalle tribù e dai rispettivi sciamani come un essere a sé stante dinnanzi alla quale il corpo era visto come una sorta di intralcio. Il corpo sarebbe presto finito, mentre l’anima sarebbe rimasta a vagare eternamente: nell’etere quanto nelle dimore ultraterrene. Si pensava che essa, oltre ad essere immortale “rincorresse fedelmente l’uomo proprio come l’ombra rincorreva questi alla luce del sole”. Se però avesse abbandonato il corpo per un determinato periodo di tempo per l’uomo sarebbe stata la fine.

Altro elemento cardine dell’universo concettuale dei Nativi è la figura del Nagual, lo spirito tutelare (o spirito guardiano). Questa idea si era sviluppata nella località di Santa Ana, dove ogni abitante si diceva possedesse sin dalla nascita un proprio spirito guardiano detto tsayotyenyi. Esso avrebbe provveduto al bene dell’individuo e a mantenerlo sulla retta via. In segno di rispetto la persona avrebbe offerto ogni giorno al proprio tsayotyenyi una parte del suo cibo. Alla morte, il nagual ne avrebbe scortato l’anima nel viaggio per l’altro mondo.

La dipartita dello spirito tutelare era assai fatale per l’individuo. Lo stregone degli Indiani Caddo, per esempio, considerava il gufo il suo nagual. Quando un gufo veniva colpito, nel corpo dello stregone si formava una ferita o un buco nella parte del corpo corrispondente alla zona colpita del corpo dell’animale.

Altra concezione, prepotentemente suggestiva, è quella legata al rispetto devoto che queste tribù conferivano al vento e all’aria, dalle quali avrebbe preso forma il respiro dell’uomo. Un capotribù Sauk una volta affermò che “il suo corpo era una sostanza animata dall’aria” e che la morte altro non era se non il completamento dell’esistenza. Da una tesi come questa il respiro diviene quindi l’idea concreta della materia della vita quasi come fosse un’immagine visiva e tangibile di quella stessa vita che scorre attraverso il corpo. Per gli sciamani Mascouten il vento era “il respiro della dea Terra”. L’aria, ovvero il vento, ovvero il respiro, che è fonte primaria di vita. Quella stessa aria che gli uomini “sviluppati” di oggi si impegnano a danneggiare e avvelenare senza esclusione di colpi.

Dunque, proprio in un’era di ridondante delirio digitale come quella che ci troviamo ad affrontare quotidianamente e in cui ci si ritrova avvolti – volenti o nolenti – dall’infinita ragnatela di un sempre più asettico e narcisistico totalitarismo virtuale vi è oggi più che mai, forse, l’esigenza di ripartire da quelle domande esistenziali, da quella visione d’insieme – scarna, ma al contempo incommensurabile, nel suo essere colma di potenza e bellezza – che questi esseri di un tempo ormai remoto, coi loro pochi, ma sofisticati strumenti intellettuali ponevano nei riguardi del significato e dell’essenza del Tutto.

Simöne Gall

(Tratto da ereticamente.net che ringraziamo sentitamente per la collaborazione)

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