Viaggio ai confini dell’Invisibile sulle ali del tempo
Sospeso tra magiche trascendenze ed echi lontani, cerco il sentiero segreto di un Tempo senza tempo, le tracce remote di una vaghezza sognata all’ombra di templi, riti, gesti e segni sapienti, che hanno lasciato la loro impronta energetica e indelebile tra le mura di un passato ancora presente. Scaldato da un Sole generoso e fecondo mi muovo quasi assente, prigioniero di un sentire che travalica i sensi e mi conduce, anzi, mi guida, negli antichi siti, vestigia cariche di forza che trasmettono la loro storia gloriosa solo a colui che sa ascoltare tacendo. Un passo dopo l’altro, distaccato da ciò che mi circonda, dalle orde vocianti che rompono l’incantamento, mi inoltro nei territori mai realmente violati che attendono di essere ridestati dalle ingiurie dei secoli. Avvolte dalla luce dorata del giorno, le testimonianze di quanto è stato si stagliano eteree, immerse in parte in una tenue penombra dal fascino arcano che concreta contrasti tonali e magiche suggestioni.
Il Recinto Divino
La magica arte degli àuguri
Lentamente, senza fretta, ma con l’ardore di chi cerca e la voglia di ascoltare la voce eterna di ancestrali richiami, di simboli segreti che già si schiudono al passaggio, mi dirigo nel cuore e centro delle antiche pratiche, il Campidoglio, il più piccolo dei colli romani, eletto quale rocca dell’Urbe, l’autentico capo religioso di Roma. Quella Roma esoterica che pochi conoscono e che cela alcune verità e riti dalle valenze misteriche. Il Campidoglio, grazie alla sua indistruttibilità, simboleggiava la durata eterna dell’Impero. La sua posizione, isolata e dominante, la conformazione delle rocce, scoscese e inaccessibili, erano le caratteristiche elettive che ne determinavano l’importanza. Sulla sommità si trovavano due piccole radure boscose, una settentrionale detta Arx e una meridionale denominata Capitolium. Le due alture erano separate da una sorta di avvallamento conosciuto come Asylum, nome che intendeva ricordare il gesto di Romolo che qui aveva offerto rifugio ai profughi latini allo scopo di favorire il popolamento di Roma. La parte più interessante e misteriosa dell’intero colle era proprio l’Arx, che ospitava l’Auguraculum, una piazzetta recintata dove i sacri sacerdoti, gli àuguri, traevano auspici osservando il volo degli uccelli. Cerco di percepire l’ignoto che tuttora sembra permeare questo luogo pregno di occulte energie e mistiche atmosfere. Gli àuguri espletavano la loro arte divinatoria stringendo tra le mani il bastone del potere, il lituo, un bastone privo di nodi, che veniva puntato verso
il cielo alla ricerca di segni divini. In base alla tecnica di divinazione conosciuta da questi iniziati, che possedevano una sapienza segreta, il cielo veniva suddiviso idealmente in diversi settori, ognuno dei quali era posto sotto l’egida di una divinità legata agli Dèi Consentes ai quali era stato dedicato un portico nel Foro Romano. Attraverso la Scienza Sacra gli àuguri traevano responsi dai fulmini, dalle comete, dalle stelle cadenti e persino dal cambiamento di forma assunto dalle nubi. Questo genere di vaticinio era detta auspicio. Per interrogare gli dèi, l’àugure si posizionava con il volto rivolto a sud immaginando di trovarsi al centro di un cerchio. La metà che restava alle sue spalle veniva chiamata pars postica (parte posteriore), quella posta dinanzi a lui pars antica (parte anteriore). A sinistra vi era la pars familiaris (la parte fausta) e a destra la parte hostilis (parte infausta). Un tuono che proveniva da sinistra (da est), per esempio, veniva interpretato come un segno fausto. Oltre a suddividere la Terra in diverse porzioni, gli àuguri, come già spiegato, compivano la medesima suddivisione anche con il cielo assegnando il quarto sinistro della parte anteriore agli dèi della natura e quello destro agli dèi terrestri, il quarto sinistro della pars postica alle grandi divinità celesti e infine quello destro alle divinità infernali. Questa sorta di rosa dei venti era chiamata Templum ossia recinto sacro. I manuali degli àuguri erano i cosiddetti libri augurali (commentarii augurum), che raccoglievano l’intera messe di norme divinatorie e verbali legate alle più importanti decisioni prese collegialmente da questi sacerdoti del vaticinio, assieme agli elementi principali da cui l’auspicio era stato tratto. Contenevano anche l’elenco degli uccelli augurali e i relativi segni, vale a dire direzione del volo, modo di mangiare e altre peculiarità. Ciò si manifestava in un tempo in cui i Numi facevano udire la loro voce e gli dèi parlavano al cuore di chi sapeva ascoltare ed era in grado di decifrare il messaggio inviato dall’invisibile. Rimango in silenzio, rapito da queste reminescenze. Respiro quest’aria sconosciuta, frutto di magiche assonanze, di consonanze astrali. Mi soffermo ancora prima di riprendere il cammino, ma qui tornerò nuovamente per visitare un posto incantato. Scendo le scale con ieratica astrazione per dirigermi al Foro Romano. Più avanti troneggia la massa ombreggiata dell’Anfiteatro Flavio, il Colosseo che mi affascina e mi scuote contemporaneamente.
La Via Sacra
La Terra dei Numi
Ora sono all’interno del Foro. Calco un suolo colmo di sacralità, percorro la Via Sacra e il mio cuore è in tumulto. Mi chiedo se i turisti distratti si rendono conto di calpestare la terra magica e mistica dei Numi, dove sfilavano le lunghe processioni e i sacerdoti bruciavano essenze odorose che sprigionavano fragranze pungenti. Lascio che la folla si dilegui, che vada avanti, e rimango a contemplare i ruderi austeri, le armonie di uno Spirito antico. Ora la mia mente, la parte più intima del mio essere, è sintonizzata su una frequenza posta al di fuori del tempo e dello spazio, sospesa fra Cielo e Terra. Continuo ad osservare, poi mi approssimo. Più avanti si trova la Fonte di Giuturna (antichissima divinità latina delle fonti e delle sorgenti), dalla quale ancora adesso sgorga un’acqua fresca e cristallina. Intorno, radici ritorte e muschio dal colore rugginoso conferiscono alla sorgente un aspetto misterioso che cela il peso dei secoli, di un vissuto sancito all’insegna del sacro. Qui, a quanto si dice, si abbeverarono i cavalli dei Dioscuri, le cui statue sono visibili ai lati della scalinata che sale verso il Campidoglio.
Il mito dei gemelli divini
Il nome dei Dioscuri deriva dal greco Dios Kuroi e vuol dire figli di Zeus. Si riferisce ai due gemelli divini della mitologia greca, Anione e Zeto (o Dioscuri tebani). I Dioscuri spartani, invece, si chiamavano Castore (che era mortale) e Polluce (considerato immortale). Il primo era abile nel domare i cavalli, arte in cui era ritenuto invincibile; il secondo era un valente atleta e pugilatore. Presero parte entrambi alla spedizione degli Argonauti e alla caccia contro il cinghiale Caledonio. Il culto dei Dioscuri (Castore e Polluce) fu introdotto a Roma prima dell’anno 500. A loro si deve la vittoria nella battaglia del lago Regillo, nel corso della quale apparvero improvvisamente sotto forma di due giovani cavalieri di splendore divino che si misero alla testa delle truppe romane conducendole alla vittoria. Terminata la battaglia scomparvero per apparire nuovamente presso la Fonte della Ninfa Giuturna, annunciando la vittoria alla popolazione. Da allora la fonte divenne sacra ai Dioscuri e accanto ad essa nel 484 a.C. venne edificato un tempio dedicato al culto dei gemelli divini. Come in un sogno, immagino i due giovani circonfusi da una sfolgorante luminescenza, da un alone di aurea trascendenza, mentre si avvicinano cavalcando lievemente. Il suono argentino dell’acqua mi ridesta e il clamore dei visitatori fa svanire la numinosa visione. Una parte della simbologia che riguarda i gemelli divini sembra alludere al corpo fisico e al corpo di luce, veicolo immortale e controparte luminosa della materia che ne occulta il potere. Alla morte della struttura corporea il corpo di luce o veicolo spirituale, completamente libero, si espande nella divinità ricongiungendosi con l’Assoluto. Tutto questo si opera se è stato svolto un lavoro iniziatico profondo e trasmutativo che ne determini la formazione e l’estrensicazione. Così Castore incarna a livello simbolico il corpo mortale e Polluce quello immortale, l’eterna forma di luce. Mentre cammino scorgo un fregio che inondato dal riverbero solare assume bagliori ambrati. L’immagine, scolpita su un capitello che sormonta una colonna consunta e frammentata, raffigura due delfini, elementi simbolici di estremo interesse. Questo splendido cetaceo è noto per la sua destrezza che consiste nel penetrare le profondità oceaniche e marine per poi tornare in superficie senza sforzo apparente, chiara allusione alla duplice capacità che l’iniziato deve acquisire allo scopo di immergersi nell’oscuro oceano astrale e successivamente risalire verso la luce.
Il Lapis Niger, la via infera e il rito delle Vestali
Mi dirigo in un posto suggestivo, un angolo del Foro dove è visibile il sacro Lapis Niger (letteralmente la pietra nera), conosciuto anche come Lapis Romuli, la pietra di Romolo. Secondo la tradizione quella pietra segna il punto in cui fu sepolto Romolo. Qui intorno al 23 agosto si officiava la cerimonia del Volcanal dedicata al dio Vulcano, denominata anche Vulcanalie. Vulcano, divinità romana di probabile matrice etrusca, si chiamava in origine Sethlans e a lui erano sacri il fuoco terrestre e quello celeste. Nel sotterraneo che custodisce il Lapis Niger aveva luogo il viaggio infernale che alludeva al viatico spirituale ed iniziatico, principio di rinascita intimamente connesso con l’Opera al Nero, la nigredo alchimica. Al di sotto della pietra nera si scorgono i gradini che conducono alla porta infera attraverso la quale si accede al ventre della Terra (la Grande Madre). Il passaggio è chiuso e nessuno può visitare l’oscuro pertugio dove aveva inizio il viaggio nelle regioni infere, initium dell’autentico cammino di trasmutazione e di rinnovamento spirituale. Avverto vibrazioni che vanno oltre il comune sentire, qualcosa che non è possibile descrivere con il frustro linguaggio umano. La lapide di tufo nero reca un’iscrizione, la più antica in lingua latina oggi conosciuta. La scritta che appare sulla sua superficie è stata redatta con il sistema bustrofedico, ossia con le righe alternate dall’alto in basso e dal basso verso l’alto. Le prime parole che compongono l’iscrizione dicono: “Chi violerà questo luogo sia consegnato alle ombre dell’Aldilà”. Procedendo incontro il cippo di pietra annerito dal fumo, sul quale fu arso il corpo di Caio Giulio Cesare (100 o 102 - 44 a.C.). Nato dalla famiglia Giulia (gens Iulia), che affermava di discendere da Julo, figlio di Enea, fu assassinato da congiurati repubblicani capeggiati da Cassio e Bruto. Qualcuno ha deposto dei fiori sulla base dell’ara in segno di rispetto e di pietosa memoria. Il sito è coperto da una tettoia di legno e da una sorta di recinto, che serve a proteggere la pietra dalla forma lievemente rettangolare. L’emozione mi travolge quando penso che qui sopra era deposta la salma di un uomo tanto potente e leggendario, un personaggio controverso e affascinante al tempo stesso. Generale, statista romano (uno dei maggiori del suo tempo), oratore, scrittore, pontefice massimo, pretore, propretore in Spagna, console. Formò assieme a Pompeo Crasso il primo triumvirato, conquistò le Gallie, parte della Britannia, passò il Rubicone e amò la regina egizia Cleopatra. Seguendo un sentiero di sassi ed erba mi ritrovo vicino a ciò che resta dell’Atrium Vestae, l’edificio dove vivevano le Vestali, le sacre sacerdotesse votate al culto della dea Vesta. Si trattava di giovani fanciulle di rango patrizio, scelte nell’età tra i sei e i dieci anni, che venivano consacrate dal pontefice massimo. Durante il loro lungo periodo di sacerdozio dovevano osservare il voto che esigeva totale castità. Il loro servizio durava trent’anni: dieci impiegati nell’apprendistato, dieci nell’esercizio delle funzioni sacerdotali, e infine dieci riservati all’istruzione delle nuove Vestali. Al termine di tale ministero avevano la facoltà di lasciare il tempio e anche di sposarsi. Accanto all’Atrium Vestae sorgeva il tempio di Vesta, l’unico con la forma circolare, il luogo in cui era custodito il fuoco sacro. Di questo sono visibili tracce evidenti che conservano una sottile malia, un fascino remoto. L’iniziazione ai Misteri si svolgeva all’interno dell’Atrium, doveaveva luogo un rito magico dal profondo valore iniziatico, la inaguratio, nel corso del quale le vergini sacre subivano il solenne taglio dei capelli (simbolo del potere occulto), che in seguito venivano appesi ai rami di un albero antichissimo. Plinio, che aveva avuto modo di assistere alla particolare cerimonia, ci informa che già allora la pianta aveva un’età non inferiore ai cinquecento anni. Espletata tale funzione, le vestali indossavano una veste candida (simbolo di purità), assumevano il nome di Amate e si mettevano a disposizione della Maxima, la più anziana delle sacerdotesse. La forma circolare del tempio merita particolare attenzione visto che il suo aspetto non era affatto casuale. Al contrario, in esso sono ravvisabili arcane simbologie provenienti dall’India e connesse con l’antichissima religione vedica, che disponeva il fuoco nell’area sacra (quella destinata ai sacrifici) tenendo conto dei rapporti cosmologici. Tre erano i fuochi sacrali - numero dalle profonde valenze simboliche riconducibili al ternario ermetico e ai tre corpi eterici dell’uomo - due principali e uno secondario. Il primo doveva essere acceso mediante lo sfregamento di un legno oppure prelevato da un altro fuoco sacrificale: le sue erano le fiamme sacre per eccellenza. Il focolare o tempio circolare rappresentava la Terra, che secondo la dottrina filosofico-religiosa era rotonda. Il secondo fuoco primario, invece, era destinato alle offerte e il fumo che da questo si sprigionava salendo in alto, verso il cielo, faceva giungere agli dèi l’omaggio degli esseri umani. Lo splendido tempio di Vesta sotto questo profilo, non era altro che un gigantesco focolare, la cui rotondità contrastava con gli altri edifici di culto a forma quadrata, dando vita ad una contrapposizione tra Cielo e Terra. Secondo la concezione dei Romani, il tempio incarnava simbolicamente lo spirito della casa sacra o ades sacra. In esso si trovava uno scomparto, il Penus, dove erano conservati dei simulacri magici che raffiguravano i Penati, Numi tutelari della casa e demoni custodi degli insediamenti umani, in perfetta osmosi con il culto del fuoco sacro e perenne.
Tabularium
Misteri, segreti, arcani
Lascio il Foro per tornare al Campidoglio. Prima di andare via mi volto, e vedo uno spettacolo che solo gli occhi sanno raccontare. Monumenti, colonne, edifici sacri, marmi, per un istante appaiono non come ruderi fascinosi, bensì intatti, rivestiti della loro originaria bellezza. Poi quell’immagine fugace svanisce, l’incantamento si annulla, ed io torno al presente. La magia di un momento irripetibile, un breve volo sulle ali del tempo, mi hanno regalato un tuffo nel passato, un breve viaggio a ritroso che si stempera e si dissolve con complice armonia. Entro nei Musei Capitolini per visitare il Tabularium (da tabulae, documenti), l’Archivio di Stato risalente all’epoca romana (incorporato appunto nei Musei Capitolini), nel quale erano conservati i Libri Sibillini, celebri responsi oracolari attribuiti alla leggendaria Sibilla Cumana, che Augusto fece sigillare in un apposito sarcofago di pietra posto nei sotterranei dell’edificio. Una costruzione immensa, realizzata esternamente con pietra gabina e internamente con tufo dell’Aniene. Questo luogo accoglie numerosi locali e un sistema di scale. La principale via d’accesso al Campidoglio, quella più agevole, era il Clivus Capitolinus di cui si può ammirare un vasto tratto iniziale. Il Clivus, che risaliva dal Foro Romano, veniva utilizzato quale percorso abituale dei cortei trionfali. Comunque si poteva accedere al Campidoglio anche attraverso le Scalae Gemoniae, ai cui piedi era situato il carcere Mamertino. Mentre percorro le vaste sale del Tabularium sento risuonare i miei passi, che con ritmica cadenza mi seguono e mi accompagnano. Tonalità ocra, marroni e rossicce si palesano dalla penombra e il senso di mistero si acuisce, mentre una lieve umidità penetra in me. Intravedo i resti di alcune taverne, luoghi di ristoro di un vissuto remoto che si perdono per dimensioni rispetto all’ampiezza di questo sito, una vera e propria città in miniatura.
Veiove
Il misterioso dio degli inferi
Nel Tabularium esisteva un tempio segreto e nascosto dedicato al misterioso Veiove, dio degli inferi. Di esso sono stati riportati alla luce i resti di un alto podio in travertino, l’altare e il simulacro del dio. Veiove (Vediovis, Veiovis, Vejupiter), al contrario dei Numi Tutelari onorati alla luce del Sole era oggetto di un culto arcano e sconosciuto che si officiava nei sotterranei del Palazzo Senatorio (l’Archivio di Stato). Divinità ctonia italica di origine etrusca, Veiove apparteneva alla storia più antica di Roma risalente al periodo dei Tarquini. Questo signore degli inferi incarnava il Giove vendicatore e giovinetto nella sua valenza più oscura, abitatore degli anfratti sotterranei. La divinità era rappresentata come una figura acefala con le frecce, e accanto la capretta Amalthea, la stessa che aveva allattato il dio Zeus e aveva dato il suo nome alla Sibilla Cumana. Gli Etruschi e i Romani lo identificavano anche come Charu, il cui nome riporta alla mente il Caronte dei Greci. Veiove, in sostanza, era il custode o per meglio dire il guardiano dei Libri Sibillini e degli Oracoli celati nel Tabularium, e a lui si rivolgevano ritualmente i sacerdoti (Decemviri Sacris Faciundis), addetti all’interpretazione dei Rotoli Sacri che raccoglievano notizie dettagliate, in gran parte segrete, legate alla storia di Roma, dai suoi primordi in poi. Solo loro erano in grado di decifrarli. Varrone, infatti, in una sua testimonianza scritta, sottolinea l’aspetto arcano dei Libri vergati servendosi dei versi esametri (verso greco e latino di sei piedi; i primi quattro dattili o spondei, il quinto solitamente dattilo, il sesto spondeo o troncheo), usati anche nella letteratura moderna, sostituendo alle sillabe lunghe sillabe accentate e alle brevi sillabe atone. Questa potente divinità veniva adorata anche sull’Isola Tiberina, sulla quale era situato il Tempio di Esculapio (Dio della Medicina), e dove attualmente sorge l’ospedale Fatebenefratelli. Qui avvenivano guarigioni straordinarie attribuite al dio. Tuttavia anche l’alta percentuale di malati che perivano, giustificava la sua presenza, dato che Veiove era una divinità infera della morte. Quando mi trovo dinanzi al simulacro di Veiove, ho l’impressione di essere pervaso da una impercettibile scossa energetica, simile a una blanda scarica elettrica. Non c’è da meravigliarsi. Chi possiede una particolare sensibilità può in alcuni casi percepire l’invisibile e sensazioni che trascendono il quotidiano, intriso di una fredda razionalità che soffoca il comparto immaginativo. Gli oggetti, come è noto, mantengono la loro forza vitale, e di certo questa statua, cuore e centro di innumerevoli riti, non fa eccezione: la sua carica magnetica è tuttora molto intensa. Il dio, maestoso e tenebroso in ugual misura, sembra emanare un’energia terrigena e remota. Ho fissato in silenzio la sua figura oscura, inquietante e sacrale, giunta sin qui dalle propaggini del tempo, dall’abisso ignoto che lo custodiva, muto testimone di un’epoca lontana e magica. Quando penso che risale al 192 a.C. avverto un fremito e senza più esitare mi avvicino e lo tocco. La pietra nera e porosa, fredda e misteriosa, accende in me sacri furori, mi fa viaggiare, mi trasporta altrove… Esco, la luce del Sole ferisce lo sguardo, poi tutto si normalizza. Vago, ripiegato in me stesso e quasi senza rendermene conto mi ritrovo ai Mercati Traianei. Intanto il Sole sta calando. Contemplo l’orizzonte e le pietre rivestite di una storia ricca di fascino, di eccessi e di contraddizioni, ma pur sempre gravida di sacralità. Mentre la luce dardeggia infuocando le antiche vestigia, tingendo d’arancio e di rosso carminio il cielo e i ruderi, una lama di luce abbagliante trafigge il tramonto, rivela i Colori del Sacro. Il buio mi avvolge mentre ritorno a casa. Il traffico, i mille suoni invasivi, le voci, le insegne che lampeggiano sanciscono la fine del viaggio. Sono un’ombra tra le ombre, l’incontro con gli dèi si è concluso, il moderno ha sopraffatto l’antico, ma il mio cuore è lontano. Perduto tra le ali del tempo.
(Tratto dalla rivista ELIXIR con il permesso delle Ed. Rebis)