Giorgio Levi Della Vida nel suo libro “Fantasmi ritrovati”, su Leone Caetani scrive:
“(…) Mi rimane fitto nella mente, e mi stringe il cuore con un empito di tenerezza e insieme di amaro compianto, il ricordo di uno dei miei ultimi incontri con lui: dai quartieri alti di Roma, dove avevo ripreso a risiedere, ero sceso al centro, e avevo condotto con me la seconda delle mie figliole, che non avrà avuto allora più di tre o quattro anni. Sotto i portici della galleria di Piazza Colonna m’imbattei in don Leone. Fermatosi a salutarmi, cominciò a vezzeggiare la piccina e a farle un mondo di carezza; e poi, con quel piglio brusco e quel tono di voce con cui, tanti anni prima, mi aveva confidato la sua invidia per Bissolati: ‘Non è vero’ disse ‘che si sentiamo più attaccati alle figliole che ai figlioli? Le sentiamo più vicine a noi, più nostre, non le pare?’
Non risposi, se ricordo bene, oppure risposi con una frase banalmente insulsa. Sapevo: e sentivo dietro a quelle parole la disperazione del fallimento della paternità legittima nella minorazione psichica del suo unigenito, e insieme il gioioso conforto di un’altra paternità; ma una gioia, ahimé, alla cui libera effusione facevano ostacolo ogni sorta di difficoltà materiali e morali, di vincoli familiari, di tradizioni nobiliari, di convenzioni sociali, di prescrizioni legali, d’interessi economici. Su tutto questo prevalse l’impulso immediato del sentimento: se sia stato per il meglio o per il peggio nessuno sa né saprà mai, giacché si tratta di situazioni nelle quali non esiste né meglio né peggio. (…) Se la decisione di gettarsi via di dosso tutta quanta la vita precedente come un vestito usato e d’inoltrarsi per una strada interamente nuova maturò lentamente nel suo animo, l’esecuzione del disegno fu quanto mai rapida. Ho detto sopra della sua consuetudine di passare ogni anno alcuni mesi dell’estate in Inghilterra: un anno (mi pare che sia stato il 1926) scrisse semplicemente che non ritornava. Passò al Canada e andò a stabilirsi nell’estrema provincia di quel paese immenso, La British Columbia, sulla costa del Pacifico, in una località di montagna sperduta tra i boschi, a farsi boscaiolo lui stesso e a sfogare l’incontenibile energia vitale abbattendo e segando i tronchi che sarebbero andati poi a vendersi giù nel piano. Per il mondo che si era lasciato dietro fu come se fosse scomparso per sempre: nessuno parlò più di lui, e non saprei dire se, quando la morte lo colse a sessantasei anni, in seguito all’estirpazione di un dolorosissimo cancro alla gola, nell’ospedale di Vancouver il giorno di Natale del 1935, i giornalisti italiani ne abbiano dato la notizia – o se mai se ne sbrigarono in poche righe. (…) Non so con quanti degli antichi amici (ma ne aveva? E chi erano?) abbia continuato a corrispondere tra il 1926 e il 1935; non credo che comunque una tale corrispondenza sia stata molto frequente né molto ampia. Forse soltanto col suo fedele Giuseppe Gabrieli, col quale amava aprirsi quando aveva consuetudine quotidiana con lui, seguitò a intrattenere un carteggio continuato che Francesco potrebbe, o anche dovrebbe, render noto. Io non gli scrissi né egli scrisse a me. Ma in una lettera a Gabrieli, che lo aveva informato di una certa disavventura politico-professionale che mi era capitata tra la fine del 1931 e il principio del 1932, mi mandò un saluto caldamente cordiale e mi manifestò un’approvazione dalla quale trassi soddisfazione e conforto. Sicché mi risolsi a scrivergli; ma devo averlo fatto con gran ritardo, giacché la sua risposta, che ha l’aria d’essere immediata, è del 25 marzo 1934. È l’unica lettera che io abbia avuta da lui dopo la sua partenza dall’Italia, ma anche più che per la sua unicità mi è cara e preziosa per quello che dice. (…) Quando mi accade (e mi accade piuttosto spesso) di pensare a colui che considero mio maestro, sotto il cui tetto e dietro il cui esempio si è maturato il mio ingegno, che ho amato e dal quale sono stato amato molto più che l’uno abbia mai detto all’altro, mi si stringe il cuore in un’amarezza sconfortate. Veramente, così come affermava nell’addio rivoltomi un anno e tre quarti prima di morire, la sua vita, nella quale per molti anni beni materiali, alte doti intellettuali, dirittura morale parevano unirsi armoniosamente per dargli felicità e gloria, è finita con un fallimento completo. Arrivato ancora giovane, per forza d’ingegno, di costanza, di abnegazione, al culmine della rinomanza scientifica, non persistette nell’opera così splendidamente iniziata e la lasciò incompiuta, se pur imponente anche come frammento, come quelle enormi cattedrali medievali che vicende politiche ed economiche hanno impedito fossero portate innanzi oltre i muri maestri.”
Lettera di Leone Caetani a Giorgio Levi Della Vida:
Vernon (Canada) Marzo 1934.
Mio caro Giorgio, la sua buona lettera mi ha dato una vera emozione, e per tante ragioni che [cancellature] posso dirle tutte. E' strano come la felicità dei momenti più belli della nostra vita sia compresa veramente dopo che quei momenti sono fuggiti per sempre. Se Ella mi ricorda con sentimenti, che mi commuovono e mi onorano, quei tempi nei quali lavoravano insieme, posso dirle che anche per me sono fra i più belli che io ricordi nella mia vita burrascosa. Quando Ella mi dovette lasciare mi venne meno una collaborazione senza la quale la continuazione degli Annali, nella condizione mia, era quasi impossibile. Io pure, caro Giorgio, al pari di Lei, non ho saputo sanare il dissidio tra la scienza e la vita. Io ho preso per moglie una donna mondana che non aveva alcuna simpatia per i miei studi e le mie aspirazioni e mi rese, per molte ragioni, la vita difficile e dolorosa. Il sangue slavo che ho nelle vene e che mi spinge sempre alle soluzioni radicali, mi indusse a cercare altrove una felicità che io credevo mi fosse necessaria. Da ciò complicazioni senza fine. Poi venne la guerra, e il mio sangue slavo mi spinse ad arruolarmi volontario, come una soluzione temporanea alle mie difficoltà. Poi morì mio Padre e mi trovai alle prese con nuove difficoltà, in momenti di crisi economica, finanziaria e monetaria, quali il mondo non ha mai vista, e l'inesperto autore degli Annali sentì che gli anni spesi ad esplorare le origini dell'Islam non gli erano di alcun giovamento né morale né materiale. Ed arrivai così ad un momento, in cui mi trovai così impegolato in complicazioni esasperanti, che… sempre il sangue slavo!… che decisi di rompere con tutto e con tutti, e andarmene in un nuovo mondo, dove potessi farmi una nuova esistenza, dedicando questa ad una figliola meravigliosa, natami in condizioni, trattate dal nostro codice civile con barbarico cinismo. Qui al Canada ho potuto, mutando nazionalità, dare il mio nome e regolare la situazione di mia figlia e vivere la vita semplice ed umile che è stata sempre quella da me prediletta. Un tempo ho fatto l'agricoltore, ma non vi ho trovato molta soddisfazione, e perciò sono diventato boscaiolo. Ho un bosco, su in alto, sul pianoro di una montagna: vi salgo la mattina, solo, con il mio camion, lavoro con l'accetta e con la sega, carico il prodotto del lavoro sul camion e poi scendo al piano per lo scarico. Nel pomeriggio leggo e attendo a piccole faccende domestiche e a letto alla stessa ora delle galline. Vita sana, come vede, rallegrata dalla compagnia di una figliola alta quasi quanto me, di una straordinaria intelligenza (a mio modo di vedere, non appropriata ad una donna), vivacissima, che passa tutto il suo tempo a leggere, e quando mi vede, ama discorrere di quanto ha letto. E quindi una compagna piena di sorprese intellettuali e morali, compagna per la felicità della quale nessun sacrificio deve essere troppo grande e costoso. Ella comprende (da queste mie brevi confessioni autobiografiche) come la mia «diserzione» (com'Ella giustamente rileva) dagli Annali era fatale ed era irrimediabile: per continuare il lavoro avrei dovuto non essermi ammogliato, o almeno essermi legato ad una figlia di professore disposta ad aiutarmi e a simpatizzare con le mie aspirazioni. Così invece sono diventato quello che gli inglesi chiamano un «failure» [“fallimento”- ndc]… non sono riuscito a nulla. Qui al Canada, menando la vita semplice, con due domestici, ho trovato molta pace, e sovrattutto, riconcentrandomi in me stesso, ho acquistato quel bene inestimabile che è la vera serenità dello spirito puramente contemplativo, scevro di ambizioni e di rimpianti, pronto ad accettare con tranquillità qualunque vicenda del destino. E' questa felicità? Non lo so! Io e Lei siamo della classe degli «intellettuali», pei quali lo spirito è sempre irrequieto. Sapesse quante volte quando sono su al bosco in estate, quasi nudo, al sole, mi siedo sopra un tronco a riposarmi e lo sguardo può spingersi libero attraverso una valle larga ridente e boscosa, inerpicarsi sui monti nevosi e con l'immaginazione spingersi al di là dove perennemente mugghia e si agita il grande Oceano erroneamente detto Pacifico. Allora spesso il demone del pensiero vola al di là dell'Oceano, varca il continente asiatico e ritorna al «Bel Paese» che mai più rivedrò e che pure ho tanto amato. Ho spesso allora pensato a Lei, in particolare quando Ella ebbe l'eroico coraggio di un grande rifiuto. Non osai scriverle per molte e varie ragioni che Ella bene comprenderà, ma è stato sempre il mio proposito di manifestarle tutta la mia simpatia ed ammirazione. Ella agì, come avrei voluto e sarei stato fiero di agire nelle medesime circostanze. E allora un velo di tristezza scende sull'animo mio, al pensiero di quanta ingratitudine l'umanità ricompensa i suoi «intellettuali», ai quali, in fin dei conti gli uomini debbono tutto, arte, religione, scienza, letteratura e senza i quali l'uomo sarebbe ancora un barbaro del «Neander-thal». Oggi in Europa fascista l'intellettuale che non si piega a tirannia è in odio; si vogliono soltanto schiavi e servi fedeli. In Germania mi dicono che il movimento intellettuale sia fortissimo. L'intellettuale è sempre un ribelle. La chiesa di Roma li ha pure sempre combattuti. Nell'Islam ogni movimento intellettuale era motivo di agitazioni e di massacri. Per più di un secolo Baghdàd, per es., fu la scena di conflitti sanguinosi fra gli Hanbaliti e le scuole più progressive… e vinsero i reazionari! In America: «Fondamentalisti» fanno guerra all'insegnamento del principio evolutivo, propugnato da Spencer e Darwin. Ma intellettuali si nasce e intellettuali si rimane: così, pur'io, sebbene grato a questo paese per tutto ciò che mi ha dato, sento che mi manca qualche cosa, la compagnia di un altro della stessa mia classe, lo scambio di idee e di riflessioni. Inoltre in questo paese l'inverno «siberiano» è troppo rigoroso per un uomo della mia età e… in fine ho una figlia, che in agosto avrà 17 anni, e per la quale un paesello di modesti agricoltori agli estremi confini del mondo civile, non offre alcun avvenire… intellettuale anch'essa! E allora… che cosa fare? La grande crisi ha inflitto un colpo disastroso alla mia fortuna e debbo vivere molto modestamente. Come vede, caro Giorgio, questa felicità è una chimera per tutti, ed anche rifacendosi una nuova esistenza rimangono sempre quelle ragioni umane, per le quali gli uomini debbono sempre, fatalmente soffrire. Proseguo, come distrazione intellettuale, i miei studi di Storia religiosa e di fenomeni religiosi di ogni natura, di ogni tempo e di ogni paese. Sono diventato più profondamente miscredente che mai e sento che il mondo ha grande bisogno di una nuova forma religiosa, spoglia di tutti i caratteri barbarici del Jehova ebraico, di quelli pagani con i quali il sincretismo orientale dei primi secoli ha rivestito la memoria di Gesù creando un essere assurdo… ma lasciamo questi argomenti troppo vasti e contenziosi… forse non tutti accettabili da lei…! Comunque sia mi perdoni se le ho scritto così a lungo parlando tanto di me e nulla di Lei… Ma Ella saprà scusarmi, perché la lunghezza della lettera e il carattere intimo di tante mie confessioni saranno prova sufficiente dei sentimenti che mi hanno sempre animato, e sempre mi animeranno verso di Lei. Mi auguro che Ella trovi un giorno la pace e qualche intimo conforto contro le cruciali ingiustizie del suo destino. Sappia che riterrò sempre una lieta fortuna se potrò ancora rivederla e stringerle la mano. Suo sempre aff.mo Leone Caetani