IL RITO SEGRETO DEI DRUIDI

I grandi sacerdoti del popolo celtico, figure arcane rivestite di mistero, dal senso del sacro e da quel sostrato magico che ne segna la cultualità, sono i protagonisti assoluti di un’era remota che si perde nella notte dei tempi. Alti dignitari e sapienti, rivestivano la massima carica sociale e pubblica e detenevano un potere illimitato, lontano dalla semplicistica figura stregonica che qualcuno ha voluto tramandare, rimandando di essi un’immagine impropria, lontana dalla verità. I Druidi possedevano una conoscenza ancestrale, e l’etimologia che emerge dal loro nome scaturisce dalla lingua greca dalla quale deriva l’appellativo di Druidae. Un anonimo scrittore del 200 a. C. definiva questi sacerdoti Magicus, attribuendo loro poteri straordinari e nozioni magiche di livello elevato. 

 

Analizzando più a fondo l’origine di questo nome, rileviamo che è analogicamente relazionabile alla radice linguistica dru-wid, che vuol dire conoscenza della quercia, in cui wid è traducibile come conoscere o vedere (che ritroviamo nel sanscrito vid che ricorre nei Veda indù). Il significato di Druido in senso non letterale è l’equivalente di quello la cui conoscenza è grande, oppure completa conoscenza. Restando nell’ambito dalle lingua celtica, troviamo un altro termine utilizzato per indicare i grandi sacerdoti: dair e ancora dar che proviene dal Galles. In breve, la parola Druido è riconducibile a molto sapiente, quasi a voler rimarcare il carattere magico-operativo di questi sapienti-maghi. In effetti, tra i ruoli ad essi attribuiti vi erano quelli di maghi, veggenti, astrologi, filosofi, giudici, medici e storici.

 Druidi: Maghi, Sacerdoti e Dignitari

 La figura del Druido, quale detentore di poteri inenarrabili, ha da sempre dominato l’immaginario collettivo. In effetti, esistono delle correlazioni ben precise tra questi sacerdoti-maghi e i favolosi sacerdoti caldei, giacché venivano indicati con l’appellativo di Magi, come dimostra l’opera risalente al VII secolo Vita di San Patrizio, in cui l’autore, un certo Muirchù, chiama i Druidi con questo nome. I Magi, come è noto, costituivano la casta sacerdotale dell’antica Persia ed erano ravvisabili nei celebri Re Magi della  Teofania Cristica. Il magio è il sapiente, colui che possiede la Conoscenza e la Magia è l’applicazione e l’insieme di tale corpus sapienziale. I sacerdoti caldei Magian, praticavano lo zoroastrismo, la religione connessa con il Fuoco Sacro promulgata da Zoroastro (o Zaratustra) ed erano conosciuti come Magi. La parola magia del resto deriva dal termine zaratustriano maga e significa Conoscenza, Sapienza, confermando il carattere sacrale ed elevato di tale scienza metafisica. Risulta palese, a questo punto, che la magia portata avanti dai Druidi e da tutti coloro che professavano i Veri, nulla ha a che vedere con il termine sbiadito e ormai abusato che gli viene attribuito ai nostri giorni. Come sappiamo i Druidi sono attestati solo in Gallia, in Gran Bretagna, in Irlanda e, come già accennato, il loro nome è sinonimo di sapientissimi (o sacerdoti della quercia). Essi rappresentavano la classe superiore del clero, organizzata in una sorta di confraternita avente potere giudiziario, accompagnato da una importantissima funzione civile. In particolare erano responsabili dell’educazione dei figli appartenenti all’aristocrazia celtica ed anche i detentori dei segreti relativi alla scienza, quasi certamente di quelli connessi con il calendario. Consiglieri dei re e degli oligarchi,

esternavano, grazie alle tradizionali relazioni con i confratelli insulari, una influenza e un ruolo determinante nei vari paesi celtici di cui erano anche ambasciatori. Si è molto dibattuto sulla questione etimologica che vede i Druidi quali sapienti della quercia ed effettivamente, secondo il parere di alcuni studiosi dei costumi druidici, quest’albero non era sacro ai sacerdoti celtici, che al suo posto preferivano gli alberi di sorbo selvatico, di tasso e di nocciolo. Distesi sui rami del sorbo selvatico, i neo-Druidi irlandesi si addormentavano allo scopo di avere visioni profetiche. Il nome druidico Mac Cuill (figlio del nocciolo), denota invece l’importanza dell’albero di nocciolo nella cultura dei Druidi. In maniera analoga la tradizione relativa ai nove alberi di nocciolo siti presso la fonte del fiume Boyne, i cui frutti racchiudevano un nucleo di sapienza, privilegia questa pianta. Gli alberi del tasso, del nocciolo e del sorbo selvatico sono comunque citati con maggiore frequenza nell’ambito della mitologia irlandese, con particolare riferimento ai Druidi d’Irlanda. Tuttavia questa valutazione non tiene presente il ruolo di primo piano che la quercia rivestiva all’interno della mitologia irlandese. Basti pensare alla Quercia di Mughna la quale, in base a quanto è scritto nel Libro delle invasioni, il Leabhar Gabhàla, fu il primo albero sacro d’Irlanda. Cerchiamo ora di approfondire il simbolismo sacro inerente alle querce. Albero sacramentale presente in numerose tradizioni, era investito dei privilegi associati alla suprema divinità celeste, forse perché attirava i fulmini e raffigurava la maestà. Tra le rappresentazioni sacre incarnate dalle querce ricordiamo, la Quercia di Zeus, situata a Dodona, quella di Giove Capitolino presso Roma, la Quercia di Ramowe in Prussia e quella di Perun sacra agli Slavi. Nel contesto mitologico la Clava di Ercole (o Eracle) era composta di legno di quercia e simboleggiava solidità, potenza, longevità e altezza, intesa tanto in senso spirituale che materiale. La quercia, in poche parole, in ogni tempo e luogo corrispondeva a livello simbolico alla massima espressione di forza. Tale aspetto era maggiormente evidente quando l’albero raggiungeva l’età adulta, momento in cui anche visivamente offriva una immagine imponente e sprigionava un’aura di immortalità e indistruttibilità indicibili. Nella lingua latina quercia e forza vengono espresse dalla medesima parola: robur, che indica sia la forza morale che quella fisica. La quercia incarnava in maniera incontrovertibile il simbolo dell’albero per eccellenza e configurava l’Asse del Mondo, come testimoniano le credenze celtiche e quelle greche. Questa connotazione, di matrice mitico-cultuale, era diffusa anche tra gli Yakuti siberiani. Non deve stupire in tal senso che Abramo, il patriarca biblico di Ur dei Caldei, abbia ricevuto le rivelazioni di Dio rispettivamente a Sichem e ad Ebron, sempre vicino a una quercia. L’albero sacro, anche in questo caso, rivestiva un ruolo assiale che lo rendeva strumento di comunicazione fra Cielo e Terra, un ponte teso tra la dimensione umana e quella preternaturale. Nell’Odissea omerica Ulisse consulta per due volte consecutive il fogliame divino della grande Quercia di Zeus (14, 327; 19, 296). Analogamente, il Vello d’Oro custodito dal drago era appeso ad una quercia che fungeva da tempio. Plinio il Vecchio ci informa in una delle sue opere che esiste un’analogia tra il termine greco drys e il nome dei Druidi, il quale va posto in relazione con la quercia. Di qui deriva la traduzione uomini di quercia. Nonostante questa interessante associazione, il nome dell’albero divino è diverso in tutte le lingue celtiche, compreso il gallico, che lo indicava come dervo. In ogni caso l’accostamento tra i Druidi e la quercia ha una sua ragione d’essere di natura simbolica, poiché in qualità di sacerdoti i Druidi avevano diritto alla saggezza e alla forza, peculiarità elettive fonte di un duplice valore che la quercia riassume in sé. La sua importanza, quale albero sacro, è attestata dalle numerose e antiche chiese che non a caso sorgono nei luoghi delle querce druidiche. Le più famose sono il Monastero di Santa Brigit, presso Cille Daire, (Kildaire, chiesa della quercia); il monastero situato a Daire Maugh (Durrow - Piano delle Querce) e infine quello edificato a Colmcille Daire Calgaich (Derry - il boschetto delle querce di Calgaich).  I Celti, inoltre, ravvisavano in quest’albero, forse per via del tronco, dei larghi rami e del folto fogliame, l’emblema dell’ospitalità. Nuovamente Plinio il Vecchio nella sua Storia Naturale descrive numerose piante legate ai Druidi e i poteri magici che queste racchiudevano. In una parte del testo l’autore menziona anche una cerimonia che si svolgeva il 6 di ogni mese, data rituale in cui i Druidi, vestiti di bianco, salivano su alberi di quercia e con un falcetto d’oro tagliavano i rami che venivano deposti in un secondo tempo su candidi panni. Non è un segreto che il vischio contiene delle sostanze medicamentose, come ormai accertato dalla scienza medica, ma per i sapienti celtici era anche un potente amuleto volto ad allontanare la folgore e a prevenire o contrastare le pratiche occulte negative volgarmente denominate fatture. La raccolta del vischio, che cadeva nel periodo connesso con la sesta Luna, era legato a una importante festività per i Celti, infatti, questa lunazione segnava l’inizio del nuovo anno. Le bacche di vischio, come già anticipato, venivano adagiate su  un manto bianco e successivamente i Druidi componevano con esse differenti sostanze utilizzate a scopo terapeutico. E’ interessante notare in proposito, che i magi celtici avevano scoperto che il vischio era in grado di favorire la fecondità e di sconfiggere gli effetti di qualunque veneficio. Le bacche di vischio appena spremute fornivano un succo nel quale erano presenti colina, acetilcolina e viscotossina, tre sostanze che una volta iniettate in vena sono in grado di abbassare per breve tempo la pressione sanguigna. Tra le altre piante magiche conosciute e adoperate dai Druidi troviamo una particolare pianta il cui nome latino era rodarum, efficace contro i tumori, gli ascessi e tutte le forme infiammatorie, come testimoniato dallo stesso Plinio. E ancora, il samolus e il selago, l’una da cogliere con la mano sinistra e l’altra con la destra infilata nella manica sinistra di una veste bianca. Queste precauzioni rivelano una valenza rituale e simbolica difficilmente esplicabile, ma indubbiamente facente parte di certe prescrizioni magico - operative ben precise. Un elemento occulto dai contorni misteriosi ed enigmatici era costituito dall’anguinum, un uovo magico delle dimensioni di una mela il quale, pur contenendo veleno di serpente, proteggeva chi lo possedeva ed era particolarmente consigliato nel corso di una causa giudiziaria. Plinio non fornisce particolari rilevanti in merito e sia il samolus, il selago e l’anguinum restano avvolti nel mistero. Alcune considerazioni sul simbolismo del falcetto si rendono necessarie alfine di approfondire la valenza ermetica e occulta di questo strumento rituale. Come i Bramini dell’India - esistono delle straordinarie similitudini tra i capi religiosi indiani e quelli celtici – i Druidi erano collocati gerarchicamente al di sopra dei guerrieri e dei condottieri. Veri capi politici delle loro comunità – assieme ai cavalieri, secondo quanto riportato da Cesare – i Druidi facevano parte di un vertice spirituale al quale seguiva quello secolare. Due poli egualmente importanti, in cui i capi celtici, che si servivano di nomi altisonanti quali Dumnorige (re del mondo), Anextlomaro (il grande protettore), manifestavano il loro potere attraverso la spada, insegna di comando e dominio. I Druidi, invece, erano riconoscibili dal falcetto, che in mancanza di altre insegne era paragonato al bordone (lungo bastone dal manico ricurvo) e conferiva il potere spirituale, magico e trascendente. I capi erano chiamati Majestix e i Druidi Miraculix .

Uates, Bardi, Gutuater:

veggenti, poeti e padri della preghiera

Al fianco dei sacerdoti druidici, e dopo di loro, vi erano altre tre categorie di personaggi che egualmente avevano a che fare con la religione. Gli Uates (termine gallico corrispondente a quello latino di Vati), che si occupavano della divinazione,  erano tenuti in grande considerazione e investiti di grande potere, tanto che alcuni autori attribuiscono loro le medesime caratteristiche religiose dei Druidi e la conoscenza della fisica. Ammiano Marcellino li indica con il nome di euhagis e Strabone li descrive come sacerdoti sacrificanti esperti di scienze naturali. Curiosamente la specializzazione dei Vati coincide con quella dei Druidi. Si può ipotizzare che gli Uates appartenessero alla classe dei Druwids (assai saggio). Con il termine Vates, i latini chiamavano coloro che possedevano il dono della profezia e della veggenza. Nell’antico irlandese erano conosciuti come faith, anche in questo caso con la denominazione di veggenti-profeti. Il nome in questione è affine al gotico wods (ossesso) e al medio-alto-tedesco wut, termine che allude ad un violento turbamento spirituale o per meglio dire, ad uno stato di allocoscienza (alterazione della coscienza). Nella lingua germanica venivano appellati come Wodan, rimarcando in tal modo la straordinaria concordanza tra la lingua germanica e quella celtica in ambito religioso. I Wodan, indovini e profeti, nell’esercizio delle loro funzioni entravano in uno stato altro  rapportabile per alcuni versi all’estasi sciamanica, nel corso della quale si manifesta la condizione di allocoscienza - estatica. Gli Uates, dunque, esploravano la volontà degli dèi e studiavano le date più adatte al sacrificio rituale in prossimità dei pleniluni e dei noviluni. Anche lo studio dei presagi (omina) e tra questi alcuni fenomeni celesti, aveva la sua importanza per i veggenti celtici che dovevano officiare le cerimonie divinatorie. In cimrico, il veggente veniva denominato gwawd (termine che allude al componimento poetico, alla poesia) con lo scopo di indicare l’ispirazione divina che lo animava. Tale elemento ci consente di supporre che il Vate gallico, dopo essere entrato in stato di trance e avere percepito la voce del dio, riproponeva questa esperienza e il messaggio ricevuto per mezzo di una ispirata forma poetica. Analizzando il termine irlandese fili, scopriamo che esso significa tanto veggente, quanto poeta e pone l’attenzione sulla condizione di trascendenza che investiva gli Uates. La seconda categoria era composta dai Bardi (chiamati anch’essi Fili come i Vati) poeti ufficiali, cantori, autori di inni e testi epici. Profondi conoscitori degli alberi genealogici delle famiglie principesche, spettava ad essi tenere aggiornati questi preziosi documenti generazionali. Il tirocinio di un Bardo irlandese era suddiviso in stadi intermedi. Il corso di studi includeva versificazione, composizione, recitazione di racconti, conoscenza della grammatica, l’Ogham (conoscenza delle proprietà delle piante), filosofia e diritto. Sette anni di questo apprendistato erano dedicati a studi più specialistici che contemplavano il linguaggio segreto dei poeti, consentendo al Bardo di essere nominato Ollamh. Successivamente poteva accedere alla conoscenza della genealogia e impegnarsi a rendere in forma poetica gli eventi e le leggi volte a trasformarlo in un dottore di diritto. Ad un livello maggiormente avanzato i Bardi, alla stregua degli Uates, erano introdotti alla pratica occulta finalizzata a impossessarsi delle tecniche connesse con gli incantesimi, la divinazione e la pratica della magia. Questi poeti erano estremamente potenti, rispettati e temuti. Tra le leggi che li riguardavano, una consentiva loro di imporre delle sanzioni rituali al re qualora si fosse rifiutato di consegnare il premio al Bardo per avere composto un poema ordinatogli dal monarca stesso. In tal caso, come apprendiamo da un antico resoconto, il poeta iniziava un lungo digiuno nel territorio del re, e aveva facoltà di indire un consiglio composto da novanta persone deputate a deliberare in merito alla questione. Se a loro insindacabile parere impedire la prosa (a volte con accenti satirici) del Bardo, o ricevere la maledizione del re risultava un duplice crimine, maggiore rispetto all’istanza esposta dal regnante nei riguardi del prosatore, quest’ultimo poteva proseguire l’azione rituale intrapresa. Una volta emesso il giudizio a suo favore, all’alba, assieme ad altri sei poeti, si recava sulla cima di un colle posto al confine di sette territori. Il volto di ciascuno doveva essere rivolto verso la propria terra, e l’Ollamh – detentore del rango più elevato – si posizionava invece di fronte alla terra del regnante. A questo punto, con le schiene rivolte a un biancospino, ognuno, stringendo in mano un sasso da fionda e una spina di questa pianta appartenente alla specie delle rosacee, incominciava ad officiare la singolare cerimonia. Mentre il vento spirava da nord, uno ad uno intonavano un canto, l’Ollamh per primo e poi tutti assieme. In un secondo tempo ognuno doveva posare la pietra e lo spino ai piedi dell’albero dai rami spinosi, le foglie coriacee e i fiorellini bianchi: il sacro biancospino. Se avevano torto, la terra della collina li avrebbe inghiottiti. Se, al contrario, la loro magia era potente, la terra avrebbe inghiottito il re, sua moglie, i suoi figli, i suoi cani e i suoi cavalli. Non bisogna sottovalutare l’efficacia di queste antiche pratiche, poiché al loro interno erano celati i segreti di un’arte operativa millenaria, che solo pochi eletti erano in grado di concretare dopo un complesso e severo addestramento. Da quanto esposto appare chiaro che le qualità sciamaniche  appartenevano tanto al sacerdote, il sommo Druido, quanto al poeta, il Bardo. Tale peculiarità, unita a particolari facoltà, prevedeva la possibilità per il sapiente altamente dotato di poteri psichici di essere uno stregone – nel senso sapienziale del termine – e nel medesimo tempo un dio, e di ricongiungersi a una sorta di animalità dotata di un istinto primordiale, un’energia terrigena-vitale, una vigoria fuori dalla norma che erano finalizzate a infondere nuova linfa alla costituzione indebolita dell’essere umano. I riti celtici, dunque, prevedevano lo svolgersi di cerimonie che avevano lo scopo di far tornare la coscienza allo stato primevo, inglobando nuovamente le caratteristiche – che essa forse arcaicamente aveva posseduto e utilizzato – di animali quali il toro, il cavallo, il cervo, il cinghiale, l’uccello, il gatto e il pesce. La trasmutazione dello sciamano in animale era praticata dai Toltechi, che esternando tangibilmente il Corpo Lunare o Mediatore Plastico (Corpo Astrale), riuscivano ad assumere la forma voluta. Il supporto di certe sostanze psicotrope poteva agire sinergicamente nel corso del rito. Non dobbiamo dimenticare che già in epoca preistorica alcune pozioni allucinogene erano note e anche i Druidi sicuramente le conoscevano e le usavano con sapiente maestria. La possibilità da parte del sapiente celtico di manipolare erbe e piante magiche, ci fa presumere che fosse in grado di creare bevande rituali capaci di originare una espansione della coscienza. Tra i reperti più famosi risalenti alla preistoria troviamo la celebre rappresentazione definita in certi casi lo Stregone danzante. Questo personaggio, eternato sulla superficie della caverna di Trois Frères, nella  Francia meridionale, è situato nella parte più profonda della cavità naturale, sopra un’elevata sporgenza di roccia, a più di tre metri dal pavimento della grotta. Si tratta di un uomo che indossa una pelle e una coda d’animale e il suo volto  è coperto da un’orrida maschera ornata con corna di cervo. La figura in questione fa pensare sia ad una divinità, sia allo stregone della tribù. Una sorta di primo e senza dubbio divino maestro di magia. Gli stregoni-sciamani preistorici, e dopo di loro i Druidi, erano individui rarissimi e possedevano capacità straordinarie: il dono di prevedere il futuro (preveggenza); l’abilità di conoscere eventi che si svolgevano a grandi distanze (chiaroveggenza viaggiante); la possibilità di cadere in stato di trance assumendo una diversa impressionante personalità; la capacità di sdoppiarsi (bilocazione). Le sostanze psicotrope usate e conosciute dagli uomini del Paleolitico Superiore erano diverse, per esempio la mescalina, l’alcaloide psicoattivo derivato dal cactus Peyote, oppure la dimetiltriptamina, il principale alcaloide della pozione sacra denominata Ayahuasca. E ancora l’ibogaina, la psilocibina e LSD. Soffermandoci nuovamente sullo Stregone danzante. Non possiamo non accorgerci della somiglianza che intercorre tra questo e altre raffigurazioni analoghe rinvenute in altre caverne situate in varie parti del mondo. In questi anfratti sono rappresentate cerimonie sciamaniche al centro delle quali appare un personaggio cornuto simile a l’uomo-cervo di Trois Frères, forse si tratta di uno sciamano o di un dio cornuto, come nel caso dello stregone di Frères. Questa effigie indossa una sorta di collare e porta al braccio un braccialetto a forma di serpente. Ebbene, il dio con le sembianze di un cervo è la copia esatta della divinità celtica Cernunnos, il dio venerato dai Druidi, come dimostra il ritrovamento di un manufatto in cui quest’ultimo è stato ritratto. Il rilievo in pietra di Cernunnos  - di impronta gallo - romana - è stato scoperto a Reims, in Francia, e risale al II secolo a. C.  L’archetipo cornuto testimonia di come esso sia stato uno dei primi spiriti animali. Una iscrizione posta vicino al reperto conferma quanto esposto: “Cernunnos, il dio Cornuto o il signore di tutti i cervi “. La scultura lo mostra mentre tiene in grembo una borsa colma di monete simboleggiante la sua funzione di dispensatore di beni e di ricchezze, di cacciagione e di prosperità. Presso di lui vi è anche un topo, che ne indica il potere ctonio. Nella terza categoria, infine, troviamo una figura responsabile del servizio al culto. Stiamo parlando dell’Antistes templi – nome utilizzato presso i galli boi italiani - ordinato al suo ministero dagli stessi Druidi, conosciuto anche come Gutuater (padre della preghiera). Una triplice iscrizione ne delinea l’immagine sacerdotale. La prima è conservata presso la torre della cattedrale di Le-Puy-en-Velay  (Haute Loira), e anche se frammentaria accenna ad un Gutuater che rivestiva contemporaneamente il ruolo di praefectus coloniae, di cittadino romano e indicava il figlio con l’appellativo di flamen. La seconda iscrizione rinvenuta a Macon (Seine-et-Loire) parla di un Gallo che era al contempo flamen Augusti e gutuatros Martis. La terza scoperta ad Autun cita un Gutuater che aveva dedicato questa iscrizione ad Augusto deo Anvallo. L’importanza di tali ritrovamenti ci fa comprendere che questo sacerdote non era un semplice ufficiale religioso posto a capo di un qualsivoglia luogo consacrato, bensì apparteneva all’Ordine dei flamen e di conseguenza faceva parte dei più alti ambienti sacerdotali. Tuttavia, la sua vera funzione resta ancora oggi oscura, anche se il Gutuater di Macon era chiaramente legato al culto del dio Marte. In ambito germanico è contemplato un nome sacerdotale simile a quello del Gutuater, il gudja, derivante dal termine gud, dio. L’interpretazione che gli viene data è quella di: colui che invoca gli dei. E’ quindi lecito supporre che Celti e Germani usassero un appellativo comune per indicare una specifica funzione sacerdotale che consisteva nel recitare preghiere e formule durante i sacrifici cultuali. Diodoro Siculo, consultando gli scritti di Poesidonio e in base ad una sua ricerca, ci fa sapere che era vietato compiere sacrifici senza un filosofo. Questo particolare ci induce a pensare che il druido preposto al sacrificio poteva essere indicato con il nome di Gutuater, il che rafforza la possibilità che le tre categorie sacerdotali erano sinergicamente interagenti. Se così non fosse, la presenza di differenti figure cultuali fa pensare espressamente a un nutrito gruppo di sacerdoti i quali, come nel caso del sacrificio indiano, compivano determinate parti inerenti all’azione sacrificale. Tale considerazione incrementa la possibilità che l’organizzazione sacerdotale dei Galli fosse fortemente strutturata. Per ciò che concerne le pratiche magiche officiate dai Druidi, sono da ricordare quelle relative alla pietra oracolare, che a quanto pare sprigionava arcani poteri e aveva la capacità di stridere nel momento in cui  si insediava un nuovo re. Non va dimenticato neppure il portentoso rito legato all’imposizione del nome verso un essere soprannaturale (eggregoro) e tutti gli atti di culto connessi con personaggi mitici quali, per esempio, le Gemelle divine e l’Eroe guerriero. Queste cerimonie si svolgevano prevalentemente nei luoghi sacri, che rappresentavano simbolicamente il centro della Terra e dell’Universo, estremo confine tra il mondo umano e quello soprannaturale. Nelle credenze magiche e religiose dei Celti predominava l’idea di un Grande Spirito la cui presenza  permeava e animava il cosmo e, allo stesso tempo, saturava i luoghi di potere. Qui si attingeva l’essenza divina e ci si immergeva nella sua stessa realtà, popolata da creature misteriose e dalle complesse caratteristiche di cui accenneremo. Gli esseri dell’Aldilà sono alcuni di questi, e venivano chiamati  dagli irlandesi con il nome di Sidh, creature che incarnavano una condizione intermedia tra i due mondi. Erano suddivisi in due categorie: quelli di grande lucentezza e quelli opalescenti, illuminati dall’interno (Fate, Folletti, Elfi e Spettri del focolare), motivo essenziale dell’arte e del mito dei Celti. I luoghi sacri ai Druidi hanno conservato
 ancora oggi la loro atmosfera sacrale, mistica e magica e la presenza dei Sidh  è tuttora percepibile a livello sottile, anche se difficilmente si possono incontrare in maniera tangibile a causa  dell’impurità del mondo. I Druidi erano intermediari tra le due realtà e il loro contatto con gli esseri fatati era reale, non presunto. Con l’avvento del Cristianesimo questi spiriti tutelari incominciarono a decrescere, sia nella sostanza che nella forma, e si tramutarono, come riportato, nelle Fate e nei Folletti del folclore. Frammenti di tale concezione spirituale, religiosa e magica sono presenti in alcuni reperti archeologici scoperti a Ralagan, nella Contea di Cavan, in Irlanda. Si tratta di una serie di teste dalla forma fallica, scolpite nel legno e di qualche figura votiva lignea rinvenute nel Santuario di Sequana, vicino a Saint-Seine-l’Abbaye, Costa d’Oro in Francia. Tali ritrovamenti presentano delle interessanti similitudini con altre figure trovate nel vasto territorio sul quale erano disseminate le tribù celtiche. I reperti francesi appartenenti al santuario di Sequana furono rinvenuti nel 1964, durante gli scavi compiuti nei pressi di uno stagno, vicino alla sorgente della Senna. I pezzi erano circa duecento e le statuine in buona parte erano integre. Depositati sul luogo approssimativamente nel I secolo d. C., i simulacri provengono quasi certamente da un santuario più antico eretto nel medesimo posto. Le immagini sacre rappresentano una divinità, anche se qualche studioso vi intravede l’immagine dello stesso fedele che rendeva omaggio al dio. Si è pensato che lo scultore dell’immagine sacra considerasse importante, ai fini religiosi e magici, non semplicemente la forma dell’oggetto ma anche il materiale con il quale veniva realizzata (in genere legno o pietra). Proprio per tale ragione l’artista cercava di lasciare la materia scultorea il più possibile grezza, quasi a voler rimarcare l’intimo senso di rispetto e di venerazione  per la sua composizione  e le sue caratteristiche. A guardia dei luoghi di potere, delle particolari influenze di matrice positiva che da essi si promanavano, degli effluvi, delle qualità dell’aria e dell’acqua, delle proprietà dei minerali e dei siti stessi vi erano poi alcuni spiriti. Ogni luogo sacro aveva il suo spirito guardiano che vegliava e curava il santuario naturale celebrando riti quotidiani con adeguate cerimonie, e poteva materializzarsi in sembianza di gatto, uccello o in qualunque forma piacesse all’archetipo femmineo, la Dea Madre che era alla base della cultualità celtica e sotto la cui egida gli spiriti erano posti. Potevano persino sostanziarsi nei panni di una strega ripugnante o di un essere splendente, questo dipendeva dalle circostanze e dall’indole dell’intruso o del visitatore che si addentrava nei boschi sacrali.    

Lug, il grande Sciamano

Tra i Celti che detenevano la carica di sciamano e facevano parte della schiera dei sessantanove celesti, uno, il più importante, è passato alla storia divenendo immortale. Fu lui a dare il nome a Lione, Liegnitz e Leida. Figura che oscilla tra realtà e mito, nelle saghe irlandesi viene celebrato come l’incarnazione del nobile guerriero. Al suo equipaggiamento appartenevano un elmo aureo e una corazza egualmente d’oro. Indossava una mantella verde, una camicia di seta sulla candida pelle e calzava sandali d’oro. Al pari dei compagni celti amava gli ornamenti e, stando a quanto riferisce Ammiano Marcellino, l’estrema pulizia. Il suo nome era Lug e non si trattava di un semplice combattente coraggioso e audace, di un guerriero marziale, bensì di un mago che padroneggiava tutte le arti occulte e non. Suonava l’arpa in maniera virtuosa, componeva poesie ispirate, costruiva case, forgiava il ferro con maestria ed era in grado di vincere le battaglie per mezzo dei suoi poteri magici. Un re irlandese che lo aveva incaricato di organizzare le sue guerre lo custodiva come il suo bene più prezioso. Lo lasciava libero di preparare piani strategici mirati a conseguire la vittoria, ma gli impediva di recarsi in prima linea per timore che Lug perdesse la vita. Nondimeno, un giorno riuscì a sfuggire alla sorveglianza del monarca e si insinuò nel campo di battaglia. Durante il combattimento, zoppicando e mormorando formule magiche, la falda del cappello - indossato per non essere riconosciuto – tirata su un occhio, si mise a girare tutto attorno ai contendenti. Purtroppo non riuscì a impedire che il re che lo aveva ingaggiato rimanesse in vita, ma per quanto riguardava gli altri guerrieri caduti in battaglia, fu in grado di resuscitarli dopo averli immersi in una magica fonte. Preso dall’ira, decise di sfidare personalmente a duello Balor, il capo dell’esercito nemico, che gli rivolse queste parole: “Solleva la mia palpebra, affinché possa vedere il millantatore che mi molesta”. Per tutta risposta Lug gli scagliò contro una pietra con tale potenza che questa gli traversò l’occhio e fuoriuscì dalla nuca. E Balor, il gigante dalle proporzioni colossali – il quale, come riportato dal mito, era il nonno di Lug – stramazzò a terra. Per fare perire il gigante si sarebbe potuto servire di numerose armi e non solo della sua fionda. Il suo arsenale, al pari di un dio quale egli incarnava, era notevolmente fornito: giavellotti incantati, incantesimi e altre risorse di matrice occulta. I suoi messaggeri erano – come nel caso del dio solare Mitra – i corvi che lo seguivano ovunque e si posavano sulle sue spalle per sussurrargli i loro messaggi. Quando fondò la città di Lione si racconta che  un gran numero di corvi neri discese dal cielo e volò vicino a lui. L’insieme di tali elementi conducono ad alcune considerazioni di ordine simbolico che forniscono un quadro singolare su questo eroe dall’armatura d’oro scintillante. Egli è accompagnato da corvi, zoppica, nasconde un occhio quando vuole mantenere l’anonimato e uccide in duello il nonno. Ciò induce a pensare che Lug, in realtà, fosse una divinità più nota: Wotan. Anche lui era circondato da corvi, possedeva una lancia infallibile e scoprì le rune acquistando in tal modo forze magiche. Anch’egli celava le vuote cavità degli occhi sotto il bordo di un cappello a cencio e, inoltre, era un cavallerizzo provetto e un invincibile guerriero che combatteva i giganti. Tali concatenazioni ci confermano la vera identità di Lug, Wotan appunto. Quest’ultimo, come narrato dalla mitologia dei nord-germani, fu assunto nel Walhalla con il nome di Odino e secondo i mitologi più accreditati era il Grande Sciamano. Nove notti il grande Odino rimase appeso all’Albero del Mondo o Albero Cosmico, l’Yggdrasil, il sacro frassino universale costituito da tre radici. Questa prova iniziatica alludeva alla morte e alla resurrezione del dio. Il sacrificio di Odino è riportato in uno scritto appartenente alla tradizione, l’Havamal (strofe 138-140), in cui si legge: “Io so che da un albero al vento pendetti, / per nove intere notti, / da una lancia ferito e sacrificato a Odino, / io a me stesso, / su quell’albero che nessuno conosce / dove dalle radici s’innalzi. / Pane nessuno mi dette, né corni  / per bere; / io in basso guardai: / trassi le Rune, dolenti le presi: / e ricaddi di là”. Alle radici del mitico albero gli dèi si riunivano, come avveniva sulla cima dell’Olimpo dove dimoravano le divinità del Pantheon greco. Esso rappresenta l’Axis Mundi, un luogo sospeso tra Cielo e Terra, punto d’incontro dei tre mondi: celeste, terrestre e infero. Si narra anche che Odino, per conoscere e dominare gli arcani misteri della vita e della morte, fosse riuscito a bere il sacro idromele – bevanda che conferiva conoscenza e immortalità – dal calderone ribollente del dio Mimer. Il prezzo pagato dal Grande Sciamano per questa impresa fu la perdita di un occhio.

Idromele:

la Sacra bevanda degli Dèi

Allo scopo di approfondire questo tema, è bene soffermarci sul mito legato alla bevanda mistico - iniziatica contenuta nel calderone di Mimer,  ripercorrendo la storia dell’Idromele, la pozione sacra, e le fasi relative alla sua lavorazione. Questa bevanda inebriante, a base di acqua e miele fermentato, risale ai primordi dell’umanità ed è comune a tutti i popoli di ceppo indogermanico. Tuttavia, già gli Egizi, i Greci e i Romani producevano idromele 2000-2800 anni fa. In ogni caso si sa che veniva prodotto anche in Inghilterra, al tempo dell’invasione romana. Nell’antica Grecia si utilizzava ritualmente una bevanda a base di miele e di acqua che veniva offerta alla dea dell’Oltretomba, Proserpina (divinità di cui parla anche Lucio Apuleio nel suo Asino d’Oro quando descrive l’iniziazione di Iside). Il suo nome era Melikraton. Era collegata al culto dei morti e ingerita nel corso di un rito propiziatorio. Similmente all’Idromele, questa miscela serviva per fare insorgere una condizione estatica che consentiva di operare un mutamento di coscienza (allocoscienza), il quale faceva accedere alle dimensioni sopranormali della realtà e del mondo degli archetipi. Nell’ambito dei Misteri Eleusini (o Misteri di Eleusi, dedicati a Demetra e Persefone), in maniera analoga troviamo una bevanda iniziatica e misterica,  il Kikeon, le cui componenti note sono l’orzo, la menta e l’acqua. In realtà, come si legge in un articolo dell’amico Pier Luca Pierini, apparso sul numero 2 di Elixir. Scritti della 

Tradizione Iniziatica e Arcana (Editrice Rebis, Viareggio, 2006), alcuni studiosi hanno formulato delle interessanti ipotesi a riguardo. Tra questi  Robert Graves, Kàroli Kerèni, Gordon Wasson, Carl Ruck e il celebre ricercatore Albert Hofmann. A loro giudizio, nella bevanda era stata aggiunta una sostanza psicoattiva che avrebbe permesso ai sacerdoti di controllare e guidare un numero sorprendente di iniziati, seguendo tempi e dinamiche di un rituale specifico in cui era previsto l’insorgere di una condizione estatica e visionaria (che conferisce il potere di vedere). Anche l’idromele consentiva di operare dei mutamenti dello stato di coscienza normale per fare emergere uno stato altro. Il leggendario soma del Rigveda, egualmente, conferiva una sorta di estasi e rendeva, come le altre bevande mistiche, simili agli dèi. Tale peculiarità spiega il senso di tante leggende diffuse in tutta l’area scandinava, sorte attorno al sacro Idromele. Il mito ci informa che Odino, padre degli dèi, riuscì a impadronirsi del met  (l’idromele) sottraendolo ai giganti, bucando la montagna e trasformandosi in un primo momento in serpente e successivamente in aquila. Dopo avere raggiunto il nascondiglio, Odino sedusse la figlia del gigante, colei che custodiva la bevanda sacra. In precedenza, il dio si era recato da un Ase sapiente, possessore del pozzo che conteneva ogni saggezza, Mimer, il quale acconsentì che Odino  vi attingesse, ma in cambio chiese un occhio del dio. Il pozzo naturalmente simboleggiava il calderone colmo di Idromele dal quale Odino, come già spiegato, aveva bevuto acquisendo sapienza e immortalità. Altre leggende narrano le vicende legate alla nascita di questa bevanda conosciuta come Nettare degli Dèi. Nell’Edda (Hàvamal strofe 104-110 e Snorri 83-85) si racconta che nel luogo dove risiedevano gli Asi e i Vani, eterni nemici, viene stretto un patto. Le due fazioni, per consolidare l’accordo, sputano nel sacro calderone dando vita con la loro saliva all’uomo Kevasir. In seguito, due nani uccidono Kevasir e mescolano il suo sangue con il miele ottenendo in tal modo il met, la bevanda che dona la saggezza. In un testo risalente al 1669, editato in Inghilterra, dal titolo Studio dell’eminente dotto Sir Kenelme Digibie, vengono descritte le fasi salienti per la produzione dell’idromele: “Prendere una dose di miele e tre dosi di acqua, lasciare bollire fino a che una dose evapori, nel frattempo si deve schiumare bene. Si può a piacere, aggiungere spezie, come chiodi di garofano o zenzero, da aggiungere prima che la mistura cominci a bollire. Alcuni vi aggiungono del lievito di birra o di pane per farlo crescere, ma questo non è assolutamente necessario, e meno ancora lo è esporre tutto al Sole. Si può conservare l’idromele in una botte, ma bisogna attendere che il liquido diventi chiaro. Per ogni botte di idromele, aggiungere una libbra di luppolo senza foglie, come quello usato per la birra. Quando si mette l’idromele nella botte, è necessario lasciare uno spazio di circa mezzo piede così che abbia spazio per crescere, poi va lasciato sei settimane socchiuso, poi si può imbottigliare”. Le proprietà occulte, mistiche, magiche e sapienziali dell’Idromele, come appare chiaro vanno al di là della semplice ricetta e risiedono nell’essenza del mito e delle sue valenze iniziatiche.   

 

STEFANO MAYORCA

Scrittore, poeta, artista e giornalista, nato a Roma dove vive e lavora, è unanimemente considerato uno dei maggiori esperti di esoterismo, ermetismo e filosofia occulta. Studioso di simbolismo tradizionale, tradizioni antiche e sciamaniche, miti e culti misterici, sperimentatore alchimico, è da molti anni Preside dell’Accademia Romana Kremmerziana La Porta Ermetica (www.arkpe.it). Apprezzatissimo conferenziere e ospite di numerose trasmissioni televisive Rai e Mediaset, collabora con le maggiori riviste del settore e svolge periodicamente importanti corsi e seminari esoterici. Le sue opere sono state tradotte e pubblicate in vari paesi europei, in Canada e in America latina.

 

  

 

 

 

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