I riti delfici si differenziavano da quelli di Eleusi, i quali erano vincolati al mistero, avevano una portata pubblica: infatti, Plutarco, che fu un sacerdote di Apollo del tempio di Delfi, ci svela nei suoi scritti come si svolgevano le funzioni mantiche. La seduta aveva luogo il settimo giorno di ogni mese, eccetto dei tre mesi invernali, nei quali al posto di Apollo subentrava Dionisio. Anticamente veniva interrogato solo una volta l’anno il 7 del mese di Bisio (marzo\aprile).Dopo l’offerta o dono si accettava la presenza propizia del Dio e si era introdotti nel Tempio, diviso in due parti: la prima chiamata adyton ossia il sacrario oracolare, sotterraneo all’interno del tempio, dove era presente solo la Pizia che dava i suoi responsi; la seconda, dove c’era una statua d’oro di Apollo e un sepolcro di Dioniso.
Da qui si ascoltava il responso della Pizia senza vederla insieme agli Adepti del Tempio. La Pizia era una donna di Delfi, precedentemente scelta come vergine, ma, dopo una storia di amore e rapimento, si decise dovesse avere almeno cinquant’anni. Non importava la sua condizione sociale o culturale l’importante era che lei, come tutta la sua famiglia, fosse di animo e costumi irreprensibili. Dopo esser stata consacrata a vita, diventava la sposa mistica del Dio e doveva vivere in purezza e castità: prima di ricevere tale consacrazione, alcuni riti erano necessari come l’ardere dell’alloro e abluzione nella fonte Castalia. La Pizia era sistemata sopra un crepaccio dove scorrevano i fluidi mantici, assisa con le gambe pendenti in una sorta di bacile da tre piedi che era il simbolo dell’oracolo. In una mano teneva un alloro e nell’altra una tazza. In alcune rappresentazioni appare l’Omphalos, che rappresentava “l’ombelico” del mondo, ma anche il centro, come Agni nel Rig Veda, che si collega alla medesima idea. Il simbolo dello swastika è un simbolo di Agni, ma non è una figura del mondo, ma l’azione del principio rispetto al mondo. A Delfi l’Omphalos era la dimora della divinità, la “Casa di Dio“, poteva anche essere a forma conica, come la pietra nera di Cimbele, oppure ovoidale, ricordando la montagna sacra come “Polo” o “Asse del Mondo” e “l’Uovo del Mondo“. E’ possibile che la pietra si trovasse proprio nel adyton, insieme alle altre reliquie sacre, possedendo la capacità di riconoscere il divino negli eventi della vita terrena. Questo è, per i greci il significato di Delfi. Nel “sancta sanctorum” profetico di Apollo essi non trovavano una rivelazione all’aldilà, ma il concreto schierarsi del Dio con loro o contro di loro. Nella divinazione non contava solo il sapere di avvenimenti futuri, quanto accertare la presenza del divino nelle forme terrene, sancendo la sua diversità con la dimensione umana. La mantica è una conoscenza irrazionale, ma fortemente prerogativa e sintetica, garanzia etica e in diretto rapporto con il Dio. L’oracolo di Delfi rappresentava la metafisica, in cui la devozione s’inserisce solo inizialmente in uno schema sapienziale e morale molto più ampio. Il tramonto o meglio il silenzio di tale dimensione sacrale è da ricercare nel passaggio dal fato alla supestizione. Il fato secondo Plutarco è la legge stampata nella mente degli Dei, che si attua nel mondo determinando presente, passato, futuro: è impossibile anche tentare di cambiarlo.
Il libero arbitrio? E’ nel fato ma non secondo il fato, oppure semplicemente un’illusione o un espediente divino che ci spinge ad agire, realizzando quella suprema legge di necessità. Il fato può essere considerato come l’anima mundi suddivisa in tre parti: una stabile, una nomade e una situata sulla terra. Quella più in alto si chiama Cloto, la mediana Atropo e quella più bassa citata anche da Platone nella “Repubblica” Lachesi. Essa riceve le azioni e le trasmette alle varie regioni della terra che sono assoggettate alla sua autorità. Tutto ciò che accade seppur infinito e procedendo da un infinito ad un’altro infinito è però rinchiuso in un cerchio: ciò che ne consegue è che il fato è finito e non infinito. Si può comprendere meglio tale verità se si pensi alla durata del giro completo dell’universo come descritto nel Timeo: “ si conclude quando le diverse velocità delle otto orbite, misurate secondo quella prodotta da un movimento sempre identico e uniforme, raggiungono infine la sincornia e ritornano al punto di partenza“. Questo movimento determina tutto ciò che accade in cielo e sulla terra, in virtù di una forza che proviene dall’alto e che tornerà allo stesso punto e partendo da li si riprodurrà ugualmente l’identico, regolando con se stesso, con la terra e tutte le cose terrestri. A chiarimento di quanto detto possiamo dire che ogni azione che compiamo non dipende né da noi, né da un influsso celeste quale origine di tutti gli avvenimenti, per cui, quando ritornerà la stessa causa, faremo le stesse cose e allo stesso modo. Ora bisogna vedere qual’è la natura di ciò che dipende da una condizione e dimostrare perché il fato possiede questa caratteristica. Per dipendere da una condizione si intende che una cosa di per sè non esiste ma che è condizionata ad un’altra. Questa è la legge di Adrastèa di cui ci parla Platone nel Fedro come: “di un anima che segue fedelemente il volere di un Dio”. Plutarco da ciò continua dicendo che quest’anima seguendo le orme di Dio, abbia avuto la visione della vera realtà. Ecco una norma che è allo stesso tempo condizionata e universale. Tale è il fato in quanto regola le conseguenze degli avvenimenti come la legge civile regola quelle delle nostre azioni. Se ciò che abbiamo detto è corretto, dobbiamo vedere come ciò che sta in nostro potere, la fortuna, il possibile,il contingente e altre cose collocate tra tutte gli antecedenti possano sussistere, senza pregiudicare l’elemento fato. Iniziamo ad analizzare la fortuna. Essa è una causa, e come tale può essere essenziale o accidentale. Il primo è unico e determinato, mentre il secondo non è unico ed è indeterminato. Ora l’essenziale può avere un’infinità di elementi accidentali diversi tra loro, ma quando l’accidentale sopravviene in ciò che si compie in vista di un fine, ma anche in ciò che dipende da una nostra scelta, allora lo chiamiamo “avvenimento fortuito“, che proviene dalla fortuna. I seguaci di Platone dissero: “una causa accidentale di cose indirizzate ad un fine e dipendenti da una nostra scelta“. Ora passiamo a parlare del possibile. Fra le cose possibili alcune non possono non accadere, come i fenomeni celesti (tramonto e sorgere del sole), altre che possono non accadere e molte di essi appartengono all’uomo e fenomeni meteorologici. Le prime le chiamiamo “necessarie“, perché soggette alla legge della necessità, le seconde “contingenti“, perché ammettono il contrario. Esempio: che il Sole tramonti è un fatto necessario e possibile, mentre è impossibile il contrario che non tramonti, ma che una volta tramontato, piova o non piova sono due cose possibili e contingenti. Nel contingente ci sono cose che si ripetono molte volte altre difficilmente e altre che in egual misura sia molto che poco. Quella che si ripete molte volte si contrappone solo a se stesso, mentre quelle che accadono difficilmente si contrappongono tra loro: esse entrano nell’ordine naturale che accadono o dipendono da noi. Che faccia caldo o freddo è un fattore naturale (frequente il primo, difficilmente il secondo), mentre il camminare o meno dipende solo da noi. Quelli di cui abbiamo parlato sono gli elementi che si trovano nel fato: il contingente, il possibile, la facoltà di scelta, la fortuna e il caso, che come abbiamo detto essere nel fato ma non secondo il fato. Adesso analizzeremo la provvidenza che comprende anche il fato. La prima provvidenza è l’intelligenza suprema o volontà di Dio, il Demiurgo che tutto genera e tutto crea. La seconda provvidenza sono gli Dèi come “controllori” del creato. Infine, ci sono i demoni a sorvegliare le azioni degli uomini. Plutarco ce le spiega interpretando i testi di Platone. La prima è quella più importante che nel Timeo leggiamo: ” Dopo aver organizzato il tutto, Dio lo divise in un numero di anime pari a quello degli astri e ne assegnò ad ogninuno di essi, e, fatele salire tutte come sopra un carro, rivelò loro la natura dell’universo nonché la legge del fato“. La seconda la indica così: ” Dopo aver dato alle anime tutte queste leggi, affinché per l’avvenire non potesse essere imputato a lui alcunché di male compiuto da ciascuna di esse, ne seminò alcune sulla terra altre sulla luna, altre infine sui corpi celesti che servono a dare la misura al tempo. Compiuta questa semina, assegnò a queste nuove divinità l’incarico di plasmare corpi mortali, di completare quanto ancora restava, di assumere dunque la guida e di governare nel modo migliore e più bello possibile questa creatura mortale, lasciandole però la possibilità di divenire essa stessa, per sua iniziativa, la causa responsabile dei propri mali“.Circa l’ultima provvidenza Platone ne parla nelle Leggi: “Che se qualcuno degli uomini, nato per grazia di Dio, fosse per natura in grado di comprendere queste verità, non avrebbe più bisogno di leggi che lo governino, poiché nessuna legge, nessun regolamento è superiore alla sapienza, e giustizia vuole che l’intelletto – quando sia schietto e realmente libero, come richiede la sua natura – non sia soggetto a nulla e tanto meno schiavo di alcunché, ma, al contrario comandi su tutto“. Quindi, conclude Plutarco la prima ha creato il fato e lo contiene, la seconda, è stata creata con il fato totalmente inclusa nella prima, e la terza nata dopo il fato è contenuta in lui, comprende la fortuna che dipende da noi.
Ora invece parliamo della superstizione, nata dall’ignoranza e dalla stupidità umana, e generatrice dell’ateismo. L’ateo crede che gli atomi e il vuoto siano il principio da cui si sono organizzate tutte le cose. A questo proposito possiamo citare l’epicureismo di ispirazione atomista, fondando il suo pensiero su tre principi: il sensismo, cioè il principio per il quale la sensazione è il criterio della verità e il criterio del bene lasciando il criterio della verità al dominio del sensibile; l’atomismo che spiega la formazione e il mutamento delle cose mediante l’unirsi e il disunirsi degli atomi e la nascita delle sensazioni come l’azione di strati di atomi, provenienti dalle cose, sugli atomi dell’anima; e il semi – ateismo credendo negli Dèì, però, estromettendoli dalla formazione e dal governo del mondo. L’epicureismo venne screditato dai platonici e dopo dai cristiani per il suo materialismo. Dante Alighieri li chiamava atei, irreligiosi ed eretici, gli epicurei, riivalutati secoli dopo dalle correnti naturalistiche dell’Umanesimo, del Rinascimento e dal razionalismo laico illuminista. Mentre, tornando a noi, i superstiziosi ritenevano che fosse la ricchezza il bene più grande, oppure definivano l’ingiustizia “fonte di ricchezza” e la licenza “madre di tutti i piaceri”: dunque, l’ateo negando l’esistenza di un ordine supremo e incorrutibile, in virtù di ciò egli si conduce all’indifferenza e al credere che non esista nessun Dio, si finisce con il non conoscerlo. Il superstizioso, invece, agendo nello stesso modo, crede che Dio esista, ma che sia distante e altro da sè, dalla propria interiorità. Da ciò possiamo dedurre che l’ateo è solo un ragionamento distorto, mentre il superstizioso è uno stato d’animo che nasce da un ragionamento errato. Quindi, se il fato è la legge degli Dei, la superstizione è la negazione della possibilità di conoscere il sacro in sè oppure di rappresentarlo cristianamente come un essere vendicativo che spinge l’uomo verso false credenze. Tutto ciò causò una perdizione dell’anima che possedeva quell’innato potere profetico che si “attivava” nei sogni, visioni e nell’ora della morte.Questo fu il motivo del tramonto degli oracoli e della morte degli Dèì: non la morte del Vivente, ma la perdità da parte dell’uomo della capacità poterlo comprendere come in passato, la superstizione avendo sostituito il Sacro Sapere. Di qui Plutarco ci parla in modo profetico raccontando che quando, all’epoca di Tiberio, il marinaio Tamo annunciò che il Grande Pan era morto, un grido di dolore attraversò tutta la terra, perché si comprese che con Lui un mondo intero era morto. Ora soffermiamoci sull’interpretazione del titolo che abbiamo voluto dare al nostro scritto. Pan è la divinità della campagna, delle selve e dei pascoli. Il suo nome deriva dal greco paein ovvero “pascolare”, simile a πᾶν, che significa “tutto”. Associato all’eroe solare vedico Pushan , il cui nome, dal verbo sanscrito pūṣyati, significherebbe “colui che fa prosperare”. Inoltre è assimilato a Phanes (Φάνης, da φαίνω phainō , “che porta la luce”), altro nome di Protogonos (Πρωτογόνος, “primo nato”). In alcuni miti è descritto come la divinità più antica che insegnò l’arte divinatoria ad Apollo. Da qui il titolo che è una similitudine tra “Pan è morto” di Plutarco e il celebre aforisma di Nietzsche “Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso” che troviamo nella sua opera “La Gaia Scienza” che recita: ” Dio è morto. Dio resta morto. E noi l’abbiamo ucciso. Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?“. Esso va interpretato come un preludio per un mondo che finisce, dato dallo smarrimento morale\metafisico che lo teneva in vita. E’ la perdita di una sacralità che avrebbe portato inevitabilmente al nichilismo. I segni dell’imminente “Ragnarok” sono da vedere nell’attacco alla Civiltà nel senso più alto del termine, e con esso la fine di tutto ciò che ha prodotto. Il rogo della biblioteca d’Alessandria, l’operato dell’imperatore Teodosio, la desacralizzazione dei collegi sacerdotali e dell’Antica Religione, lo spegnimento del Sacro Fuoco, che per i romani era una componente indispensabile dello Stato e veniva tenuto accesso dalle vergini Vestali, furono i segni della fine del mondo antico, ma anche lo spegnimento della capacità profetica nell’uomo. Pan è morto, perché l’uomo ha ucciso se stesso e il divino insito in sé. Affermare che il Dio Caprone sia ancora in vita, senza avvertire la stretta necessità di risvegliare se stessi è solo un inutile esercizio di superstizione e non di arcaica religiosità.
Bibliografia di riferimento:
Plutarco – Dialoghi Delfici Adelphi 1983;
Plutarco – Il Fato e la Superstizione Newton 1993;
René Guénon – Il Re del Mondo Adelphi 2011.
(Tratto dal sito ereticamente.net che ringraziamo per la collaborazione)